È del 18 marzo 2020 la prima immagine da ricordare, ma anche l’ultima da dimenticare: un’immagine ripresa e immortalata in centinaia di scatti. Un anno fa una coda interminabile di camion dell’esercito lasciava Bergamo perché lì non c’era più posto. Il cimitero della città orobica era al collasso e le salme delle vittime dell’epidemia da Coronavirus andavano trasportate nei forni crematori delle regioni limitrofe.
365 giorni dopo, alle ore 11.00, l’Italia resta in silenzio. Non c’è spazio per un sorriso. Viene solo un po’ più spontaneo alzare lo sguardo al cielo e cercare tra le nuvole chi non cammina più nelle nostre strade. Sono tanti, troppi. Centotremila quattrocentotrentadue.
«Il dolore ha la forma di uno smartphone e il suono del canto di un gallo. Il tempo si è incredibilmente dilatato; credo di aver perso l’orientamento. Vado a letto alle 2.30 di notte, stremata, sperando che almeno la stanchezza riesca a spegnere i pensieri, anche solo per qualche ora. Per settimane mi sono chiusa in una bolla rumorosa. Adesso sento il bisogno di familiarizzare con il silenzio che mi circonda. Ho smesso di ascoltare musica per un po’. Mi sentivo persa e mancante di qualcosa al quale, però, non riuscivo a dare un nome. Mi sono allontanata da tutto per poi ritornare, forse, con qualche consapevolezza in più. La musica non ha mai smesso di salvarmi la vita; eppure in questi ultimi giorni iniziava ad essere quel qualcosa di troppo che non mi faceva più star bene. Sai, a volte la musica si trasforma in rumore assordante e anziché lenire le ferite ti incapsula in una bolla dove regna la confusione. Dopo un paio di giorni era diventato tutto più chiaro. Ho ripreso le cuffiette. Play. “Solo un uomo”. Niccolò Fabi. “…perché la gioia come il dolore si deve conservare, si deve trasformare”. Ricomincio da qui. Sono stati giorni duri. Ho smesso di credere che #andràtuttobene. Ma ho deciso di resistere. Mi sono detta più volte che quando tutto questo sarà finito io non voglio cancellarle queste settimane. Le voglio custodire; voglio custodirne ogni germe di bellezza e di speranza. Torneremo ad abbracciarci. E ci meraviglieremo di quanto sarà bello. Le cicatrici ci ricorderanno chi siamo stati ed è proprio da lì che ripartiremo. “Quando ho visto le mie cicatrici, ho pensato che fossero perfette per me. La cosa peggiore è non imparare una lezione dalla vita”. Il dolore non verrà cancellato ma ci sarà un nuovo spazio per la gioia. Cambieremo. Forse, siamo già cambiati. In questo tempo così delicato abbiamo due opzioni: attraversarlo o lasciarci attraversare. Decine di camion militari continuano a portar via da Bergamo centinaia di salme. Un’immagine forte, cruda. Una di quelle che scuote le coscienze; che non può lasciare indifferenti. Quell’immagine è stata la prima ad interrogarmi e sarà l’ultima da dimenticare. “La vita è un brivido che vola via”, canta Vasco. E Bergamo lo sa bene. Dietro quei numeri che appaiono quotidianamente sugli schermi delle nostre televisioni ci sono padri, madri, sacerdoti, medici, nonni…ci sono esseri umani. Non sono solo numeri. Oggi, quelle persone muoiono in un letto…da sole. È la morte più atroce. Soli. Quante parole rimarranno non dette e quante carezze negate. Quel bastardo ti priva di tutto, anche della possibilità di dire “Addio”. E non è vero che “gli addii non sono mai violenti”. Davanti a tutto questo siamo davvero poca cosa. Impotenti. Il silenzio ci interroga e non ci resta che lasciarci interrogare per poter essere domani gli uomini che avremmo potuto essere oggi. Servirà un po’ di tempo ma le ferite si chiuderanno e torneremo a sorridere. Ora c’è bisogno di te! Resta a casa e non permettere a quel metro di distanza di impedirti di amare».
“Commuovermi stringendo una vita che ride, che assomiglia un po’ a me. Sperare di confondermi con la mia gente. Diventare…migliore”
(L’articolo è stato pubblicato in data 27 marzo 2020 su radio1088.it)
Scrivevo così, appena un anno fa, in una pagina di diario poi sottratta alla sua segretezza e resa pubblica. Rileggere queste parole, oggi, vi assicuro che fa male. Certo, la nuova zona rossa qui a Milano non è minimamente paragonabile al primo lockdown ma anche quello che siamo diventati non è affatto paragonabile a quello che ci eravamo promessi appena 365 giorni addietro. Rileggere queste parole fa male perché ricordo perfettamente il dolore di quei giorni ma, soprattutto, perché ancora una volta abbiamo preferito nascondere una cicatrice con un tatuaggio. Abbiamo anestetizzato il cuore, ci siamo chiusi in una bolla e le centinaia di pagine che compongono un dizionario della lingua italiana si sono ridotte ad una sola pagina con una singola definizione: “Io [ì-o] pronome personale usato dalla persona che parla per riferirsi a se stessa”.
Dove sono finiti tutti i buoni propositi? Beh, forse sono stati bruciati nel barbecue il primo giorno di zona gialla. E non #andràtuttobene fin quando la nostra memoria non sarà sufficientemente allenata e, soprattutto, fin quando non capiremo che “la gioia come il dolore si deve conservare, si deve trasformare”.