CATANIA – In Sicilia come in altre regioni d’Italia l’assistenza sanitaria è in affanno: manca il personale medico, stimato in migliaia di unità per colmare i gap che si registrano nei reparti di urgenza, così come nella rete di medicina territoriale. Dalle province di Catania e Palermo a quelle di Caltanissetta e Ragusa, sono diverse le disfunzioni e le criticità denunciate: le carenze croniche sono state aggravate dallo stato di emergenza pandemica, e tra difficoltà logistico-organizzative e irregolarità contrattuali, si guarda all’estero per reclutare colleghi utili alla causa. La situazione siciliana sta diventando insostenibile, così come in diverse parti d’Italia: grazie a una deroga temporanea che sposta il riconoscimento dei titoli conseguiti in Paesi stranieri dal ministero di competenza alle Regioni, in Calabria sono stati assunti medici cubani, in Puglia sono state avviate le interlocuzioni per reclutare sanitari albanesi, e in Sicilia pare si stia valutando una soluzione a tempo, guardando ai camici bianchi argentini. Gli Ordini medici provinciali siciliani però fremono e i 9 presidenti, esprimendo forti perplessità in merito alle garanzie di qualità nell’assistenza che verrà fornita dagli operatori stranieri, hanno definito la chiamata alle armi di medici provenienti dall’estero «una soluzione a tempo che rinvia un problema grave e che scavalca ogni regola ordinaria e straordinaria in tema di assunzioni in sanità». «Una riflessione va fatta sui giovani, proprio nei giorni in cui nel capoluogo etneo si svolgono i test di ammissione per oltre 2.800 aspiranti – sottolinea il presidente dell’Ordine etneo (OMCeO Catania) Igo La Mantia – dovremmo pensare a valorizzare lo studio e i sacrifici dei nostri studenti e dei nostri specializzandi, spesso mortificati con contratti di tre mesi, dopo un lungo e faticoso percorso formativo certificato. Valorizzare il nostro capitale umano significa aumentare le borse di studio per la formazione, allineare le retribuzioni, aprire le porte del lavoro agli specializzandi, mantenere il numero chiuso tarandolo però sulle reali esigenze del territorio. In poche parole: rendere più attrattivo un mestiere che oggi più che mai va difeso e valorizzato». E se da un lato, le giovani leve possono servire per dare nuova linfa a un sistema – quello sanitario – sempre in affanno; dall’altro, certamente i medici pensionati possono aggiungere quel valore dettato dall’esperienza e dalla passione per la professione: «I medici in quiescenza hanno ancora tanto da dare ai propri pazienti e il loro ritorno può di certo rappresentare una soluzione estemporanea per fronteggiare l’emergenza – conclude La Mantia – ma adesso è giunto il momento di cambiare rotta, per cercare di modificare il sistema a livello strutturale, partendo dai rinnovi contrattuali e dalle convenzioni. Non bastano le indennità, né può essere sufficiente rinnovare ciclicamente i contratti a tempo determinato per tamponare situazioni eccezionali. Serve accelerare gli iter concorsuali, serve la stabilizzazione delle risorse precarie, serve investire sulla sanità adeguando gli stipendi agli standard europei. È il momento di un grande investimento pubblico sul personale della medicina, per migliorare la qualità e la quantità dell’offerta di cure, restituendo dignità alla nostra professione e ai professionisti».