E se, all’improvviso, si scoprisse che il POP, oltre ad essere popolare, piace a tutti anche a coloro i quali, in certe e “accademiche” circostanze, lo snobbano?
Cosa accadrebbe se si scoprisse che in fondo hanno canticchiato e continuano a farlo tutti, ma proprio tutti, le canzoni di Morandi o di Baglioni, di Eros Ramazzotti o Laura Pausini?
Le definizioni sono per antonomasia qualcosa di statico, di immobile, di non modificabile, che rimangono tali nel tempo, come se, malgrado l’evoluzione sociologica, non si potesse rivedere, correggere, cambiare un modo di pensare che non coincide più con la definizione stessa ancorata ad un anacronistico pensiero. Insomma una caratterizzazione lessicale da manuale, priva di “respiro”, senza possibilità di scampo e senza via d’uscita. Questo “legame” al dato lessicale e alla definizione di esso, ha bloccato, per tanto tempo, qualsivoglia ricerca ed approfondimento ulteriore. Ciascuno, “nella propria parte” si è sentito “forte” e forse anche gratificato da quelle stesse convenzioni culturali stereotipate. Quindi in questa sorta di “dicotomia d’effetto”, ciascuno si è “collocato” dove maggiormente e convenzionalmente ha creduto potesse essere la sua naturale “riva d’approdo”. Più volte, nel corso della storia della musica e dello spettacolo, illustri critici musicali, hanno cercato di “smantellare” l’idea che il pop è, per definizione stereotipata, solo canzonetta o, ancora peggio, spettacolino adatto ad un popolo poco erudito.
Sempre più, nel tempo, dopo una pausa storica non proprio edificante, legata agli anni ’80 e parte dei ‘90, quella per dirla tutta dei “paninari” prima e dei “Sancarlini” e dei “Pariolini dopo; dei fenomeni musicali estivi di brevissima durata, per intenderci del “mordi e fuggi” del “Vamos alla playa” dei fratelli Righeira o di “People from Ibiza” di Sandy Marton, si affermavano anche artisti destinati a rimanere sulla scena un bel po’, grazie a sonorità innovative, frutto di ricerca e sperimentazione a suo modo originale: da Madonna, agli Spandau Ballet, dai Duran Duran ai Level 42, dai Simple Minds ai Culture club, passando per Michael Jackson e gli U2. Da qui in poi, si è iniziata a consolidare l’idea che non tutto il pop era da “buttare” e, forse, ciò che è pop non è necessariamente avverso, in contrasto o lontano da “altro”. Malgrado la resistenza di ordine culturale, per carità ancora “in voga”, ad accettare che il pop può avere una sua dignità culturale anche e non solo nella musica, ma più in generale nelle arti, sostanzialmente si è concretizzato, solo negli ultimi anni, une vero passaggio “epocale”: la fruizione di massa dei fenomeni musicali che ha azzerato le definizioni e le convenzioni categoriali di un tempo. A fare ciò ed in maniera naturale ci hanno pensato gli artisti. Le grandi e storicamente recenti collaborazioni tra musicisti e cantanti provenienti da formazioni e stili musicali diversissimi, hanno invece conclamato il principio indissolubile che in arte non possono esistere separazioni “a prescindere”. Quindi non ci sono sostanzialmente più dogmi da seguire pedissequamente. Insomma non abbiate più “paura” a definirvi Pop, Rock, Jazz o Funky, le contaminazioni per fortuna, hanno azzerato tutto, compreso l’illusione che possa esistere un’arte con la A maiuscola ed un’altra con la A minuscola. Del resto, se avessimo preso maggiormente sul serio l’idea gombrichiana dell’arte, avremmo perso meno tempo nella ricerca quasi ossessiva delle definizioni “divisorie” e ci saremmo concentrati di più sul piano del ritorno emozionale che produce la rappresentazione artistica, privilegiando, di certo, il gusto del nostro vero e personale “sentire”.