Qualche giorno addietro, grazie ad alcune riflessioni fatte con il prof. Andrea Rapisarda, docente di Fisica teorica dell’ateneo catanese, all’interno del format social “10 minuti insieme”, in particolar modo su “l’effetto benefico del caso”, si è fatta avanti, in me, quella mai dimenticata voglia di esprimere la speranza, affinchè si possa determinare un’inversione di tendenza culturale che permetta di costruire un “nuovo” concetto di merito. Ancora tanti (forse troppi) talenti “nostrani”, proprio per l’assoluta mancanza di applicazione del “merito”, sono costretti ad esercitare la loro professione da tutt’altra parte del mondo e, spesso, non per un’autonoma scelta, bensì per una chiara “costrizione”. Gli effetti di questa evidente emigrazione, sono fin troppo noti a tutti ed hanno determinato ampi dibattiti con l’utilizzo delle più svariate definizioni. La più in voga e maggiormente efficace, sembra essere quella di “cervelli in fuga”. Tanti giovani professionisti, ricercatori, medici, docenti, tecnici, sono costretti ad andar via dalla propria comunità, perché si è vieppiù consolidato, nel corso degli anni, un sistema clientelare basato sul consenso e quindi finalizzato alla regola principe del “do ut des”, la quale non prevede altri criteri di scelta. Chi non rispetta tale regola è “fuori dalla casa”, per utilizzare un termine trash, consono al linguaggio televisivo moderno. Tutto ciò ha ovviamente contribuito al depauperamento intellettuale, culturale, produttivo, della nostra terra. Quindi, per un attimo, ho provato ad immaginare: e se “approfittassimo” della pandemia ed iniziassimo ad applicare “il principio di Peter” (meglio conosciuto come “principio di incompetenza”) ora, in questo determinato momento storico, (con l’attuale insperata sensibilità da parte dell’opinione pubblica, verso tale questione), in modo da “portarci avanti” per poi, in seguito, “istituzionalizzarlo”, cosa ne uscirebbe fuori?
Cioè, in pratica, la mia riflessione si muove dall’assunto di base che, lo psicologo Laurence J. Peter, nella sua opera “The Peter Principle”, aveva messo in evidenza: ogni membro di una qualsivoglia un’organizzazione, riesce a scalare la gerarchia sino a raggiungere il suo massimo livello di incompetenza. Questa tesi si basa sul dato certo che le abilità, la bravura a svolgere le mansioni assegnate, porteranno alla conseguente “promozione” del soggetto interessato. Tutto ciò, però, gli farà raggiungere (paradossalmente) il suo livello massimo di incompetenza. Quello, per il quale, il nostro Paese (per gli aspetti legati alla pubblica amministrazione) sembra avere un primato sul piano internazionale.
Sostanzialmente, il “principio di Peter” può essere applicato in svariati campi d’azione, ma in particolare ritengo ad uno, che va affrontato con determinazione e che potrebbe cambiare il corso della storia: la politica.
Ritengo che applicarlo alla politica sia assolutamente cosa necessaria (oltre che giusta), per fare spazio a governi di competenti e, quindi, per assioma, all’affermarsi di una società meritocratica.
Il poter immaginare un percorso, in un contesto sociale, dove i ruoli siano svolti da competenti è una utilissima “non scoperta”, ma tanto è.
In pratica, la giusta trasformazione dei criteri di selezione, basati su chiare e misurabili competenze, contrapposti alla consolidata pratica delle clientele, “rischierebbe” davvero di salvarci dall’oblio della mediocrità, al quale sembriamo definitivamente destinati.
L’idea che, questa “ipotesi di lavoro” possa sostenere una società competente e meritocratica, avrebbe come primo effetto quello della formazione di una classe dirigente decisamente preparata a svolgere il ruolo. Al contrario, è del tutto evidente, come la meritocrazia è questione da sempre discussa, ma altrettanto disattesa, inapplicabile e fortemente osteggiata. Costruire una società meritocratica, non sarà mai il fine progettuale dell’attuale “classe dirigente” poiché, per antonomasia, proprio essa, rappresenta in pieno la mediocrità. Anzi, direi che ciò metterebbe a serio rischio questa attuale e presunta “oligarchia dei migliori” (assolutamente auto referenziale) che oggi governano i processi, poiché il sovvertimento delle regole, porterebbe alla loro stessa “estinzione”.
Tuttavia, una opportuna e consapevole presa di coscienza è, oltre che auspicabile, elemento sul quale bisognerebbe seriamente lavorare (a 360 gradi), per permettere alla società, nel suo complesso, di poter cambiare i parametri di riferimento, le logiche politiche di “cencelliana” memoria, in quanto hanno dimostrato tutti i limiti del caso.