Si susseguono, quotidianamente, notizie che riconducono a presunti abusi su alcuni studenti, da parte di docenti e di dirigenti scolastici, evidenziando come la scuola in DAD stia sempre più fornendo elementi importanti di riflessione, al fine (speriamo) di “ricostruire” una migliore e più adeguata pedagogia, adeguata ai tempi e ai suoi mutamenti. Sono ormai note le ultime vicende che riguardano alcuni alunni costretti a bendarsi durante una verifica o, ancora, obbligati ad accendere la web cam malgrado il loro stato di salute avrebbe indotto, qualsiasi persona di buon senso, a comprendere, invece che imporre in modo pedissequo, una criticabile regola.
Tuttavia, questi accadimenti rischiano di rappresentare solo la punta dell’iceberg e ritengo che siano in molti, pronti a raccontare episodi “bizzarri” di alcuni docenti e dirigenti scolastici, anche loro, intrappolati psicologicamente dalla “crisi pandemica”.
In questi momenti ritornano alla mente le tante criticità sicuramente lasciate irrisolte nel pre-pandemico e accentuate dal momento che stiamo vivendo, come quel dirigente scolastico, passato agli onori della cronaca per aver individuato, presumibilmente come necessità a protezione degli alunni normo dotati della sua scuola, lo strumento del possibile T.S.O. da sottoporre ad un uno studente affetto da autismo, come forma di “integrazione scolastica”. Certo non si può fare di tutta l’erba un fascio, ma è bene comprendere se la scuola, come la più importante agenzia educativa, dopo la famiglia, è ancora e davvero un approdo sicuro e, soprattutto credibile, per i nostri ragazzi.
Intanto, per esempio, quanti studenti in Italia, ancora oggi, sono costretti a “sopportare” la classica lezione frontale, già stantia, anacronistica e superata da tanto tempo e tuttavia ancora molto utilizzata, tanto da essere traslata in modalità a distanza? Troppi, basta leggere qualsiasi feed back predisposto dalle scuole o approfondire i dati di alcune ultime pubblicazioni che riguardano lo specifico settore, che ci si rende subito conto di come la maggiore sofferenza consiste, per lo studente, nell’essere costretto a seguire questo lunghissimo, interminabile ed interrotto monologo che dura dalle cinque alle sei ore al giorno.
A tutto ciò si aggiunge, peraltro con aspetti filodrammatici, che il docente, “novello attore”, approfitta di questa modalità e, considerato il fatto che tutti gli studenti sono “a microfono spento”, trova la sua “massima realizzazione” (quasi si trovasse, per la prima volta, in un palcoscenico vero) nello spiegare senza essere disturbato, appagando il suo ego che ritorna a fiorire, magari dopo le tantissime delusioni subite in anni di “mortificazioni” in presenza, senza comprendere fino in fondo che ciò è accaduto perché gli studenti sono stati “silenziati”.
Evidentemente (e si comprende bene il perché), la scuola diventa argomento di dibattito acceso solo in determinati periodi e momenti storici. Chissà perché è sempre più raro trovarsi a dibattere di metodologia, di pedagogia, di centralità dello studente, rispetto magari ad una seria programmazione di impegni, risorse, approfondimenti, ricerca. Sarebbe bene chiedersi: quanti docenti si stanno occupando della centralità dell’alunno in questo momento particolare? Quante scuole hanno attivato, realmente una nuova didattica che possa soddisfare al meglio le attuali condizioni? Quale feed back oggettivo è stato utilizzato per evidenziare queste criticità? Quanti sono i dirigenti scolastici che, dopo essersi occupati di sistemare i banchi a rotelle, gli igienizzanti per le mani, i dispositivi di protezione individuale, si stanno chiedendo cosa realmente stia avvenendo nelle loro scuole e ai loro ragazzi? Chi si sta interessando, soprattutto, di comprendere il loro status di salute mentale, il loro compromesso equilibrio, le crisi di ansia e di panico determinate da questa pandemia?
Non è volontà di “semplificazione” o generalizzazione concettuale e neanche contrapposizione provocatoria rispetto all’argomento, ma più semplicemente amara constatazione di ciò che è, oggi, la realtà scolastica. È arrivato il momento che tutti i nodi vengono al pettine e, sicuramente, non è incoraggiante neanche la risposta che a questa crisi identitaria dell’istituzione “scuola” si vuole dare, continuando a nascondere i problemi veri che sono spesso legati ad una netta discrasia tra il “mondo della scuola” (racchiuso in una sua determinata unità temporale) e quello concretamente reale, vissuto dai giovani.
La scuola dell’autonomia, sarebbe bene ammetterlo e dirlo con forza, è definitivamente naufragata in una sorta di limbo, portando con sé tutte le contraddizioni di un’indipendenza scritta solo sulla carta e mai sostanzialmente realizzata.
Si, perché nel fallimento assoluto della pseudo autonomia scolastica, entra in ballo, in maniera determinante la funzione del dirigente scolastico che concepito legislativamente come manager, si ritrova a gestire solo burocraticamente quello di cui un tempo si occupavano i vari uffici periferici del Ministero (ex provveditorati ormai definitivamente “smantellati”), a danno del vero ruolo culturale e di guida pedagogica che, al contrario, sarebbe necessario ristabilire nella nuova visione di scuola.