Le madri di Emma Dante:  il vero atto di “misericordia” per un’umanità alla deriva.

Le madri di Emma Dante: il vero atto di “misericordia” per un’umanità alla deriva.

di Rosa Caminito

L’inizio in “medias res” è la cifra ideologica di un’opera che reca la firma di Emma Dante, una storia estrema in ogni suo aspetto, che irrompe nella mente dello spettatore con la forza dirompente della verità.

Smisurato e smodato il caos e il degrado in cui si muovono gli esseri umani, disumanizzati nel loro incedere quotidiano tra immondizia e rifiuti di vario genere, in un ” vallone” di ariostesca memoria, in cui il senno è andato perduto per sempre e dove si ammassano: rassegnazione, frustrazione, sogni infranti, “bolle”, a cui figure evanescenti,  si attaccano con la disperata forza delle illusioni.  Ma in quel mondo di oggetti rotti e sporchi, in quelle case, che reiterano la condanna alla bruttura della vita, con pareti ammuffite e acqua che ristagna, si muove una creatura venuta da una dimensione altra. Arturo ha il nome di una stella, è nato dalla violenza di un uomo meschino e grottesco, emblema di quel male che, declinato nella realtà, assume il volto sfregiato del balordo, pronto ad assoldare ragazze abbrutite dalla vita e a metterle sul mercato, usandole e abusandole a suo piacimento.  Ma loro sono donne immense, che nella loro femminilità offesa dalla violenza quotidiana, diventata habitus, ostentata in una ridda di dolore represso e rabbia covata, riescono a ballare, a cantare o a cucinare un piatto povero che profuma di curcuma. Allora il tugurio diventa luogo in cui raccontare e raccontarsi; una ragazza dallo sguardo di bimba, che mangia cioccolata, perché non sa cucinare nulla, nemmeno la pasta, venuta da chissà dove, senza madre né padre, si svende al miglior offerente, vestita da fata turchina, per il delirio di onnipotenza di un maschio pagante, che la restituisce al suo girone infernale, infranta e dolente. Anche la morte in questo inferno tutto umano, è meno nera che nel resto mondo: sarà danza negli abissi di un mare, che a volte diventa grosso e minaccioso contro quei piccoli esseri malvagi o sventurati, altre volte spalanca le sue braccia alle donne che a lui si affidano, per addormentarsi tra anemoni marini e raggi di luce discreta. Questa è la morte sognata dalla giovane Anna, ma è la morte vera, di una madre che lascia al mondo una creatura di infinita purezza. Il piccolo Arturo rimane abbandonato nell’incavo di una scogliera e il primo atto di pietà arriva da una pecora belante che risponde con un verso  a quel pianto di figlio, che non ha bue e asinello a scaldarlo, che non è figlio di Dio, ma sarà Cristo, con la sua croce per tutta la vita. Una vita che gira in modo vorticoso, come una danza sul nulla, gioco di bimbo sempre innocente anche quando diventa uomo con un corpo di uomo, che reclama il suo diritto al piacere;  che  racchiude nella sua mente il mistero di una mamma invocata nel sonno o sullo scoglio di quel mare, che placa dolori e cura ferite. Il bambino cresciuto nel fango e nel nulla, sembra passare indenne tra squallore e violenza, volteggia e gioisce nella sua rete, costruita con un gomitolo di lana, mondo nel mondo, in cui districarsi è un gioco, in cui lui, novello Teseo, prende per mano una bellissima Arianna, che non ha un filo da donargli  per guidarlo fuori  dal labirinto. Il mostro non lo uccide nessuno, perché in questo mondo infame non c’è spazio per gli eroi, ma solo per i sognatori. C’è un narratore che racconta storie e simula battaglie, strappando un sorriso ai bambini, che per gioco spaccano oggetti ammassati, oppure, squarciano fili di rame,  seduti in cerchio assieme agli adulti. E’ l’antifrastica immagine di società arcaica, in cui il cerchio aveva al centro il fuoco e gli uomini ascoltavano storie antiche di dei e di eroi. Ora gli uomini sono giganti deformi, bevono birra e aspettano, all’ingresso del tugurio il loro turno, per congiungersi, dietro una tenda, con una donna pagata due spiccioli.  E’ un marasma di fango e di acqua che ristagna, ultimo girone dantesco, con un Lucifero che spadroneggia ancora e minaccia morte a quel figlio ” menomato”; lui piange e grida quando incrocia quell’unico occhio, per un’ innata repulsione del bene verso il male, per orrore dell’ angelo verso il demone, per l’ inconscio di figlio che riconosce  il padre assassino. In questo mondo senza speranza, bloccato nella ciclica reiterazione di gesti e frasi che hanno il sapore di una condanna alla vita, le donne scavano un solco: ritagliano un Eden inatteso, caldo di latte e  di coperte lavorate a mano,  di amore immenso, di notti insonni a cullare quel bimbo che non è carne della loro carne, che non è uscito da quel ventre infecondo e perennemente offeso, ma è comunque figlio. Figlio da lavare, anche quando diventa uomo, da stringere al petto, figlio da salvare con un atto di amore e misericordia, portandolo via dall’ Inferno. Le madri, come in un rito antico, raccolgono oggetti che possono essere ponte tra passato e futuro, memoria del dolore e dell’ amore, li mettono dentro una valigia, per un viaggio di sola andata, nel mondo dei vivi.  Arturo è il piccolo Mosè affidato alle acque in nome di una salvezza che è solo speranza, ma meglio di una morte certa. Alle sue spalle quel microcosmo di umanità alla deriva, che un giorno potrebbe essere ingoiato con tutti i suoi piccoli esseri più o meno colpevoli, da un terremoto o da un maremoto, ma  sarebbe solo giustizia di Dio in un mondo senza Dio.

 

 

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