LENTINI. “Non lasciateci soli. Ne va della nostra vita». Gianluca Maria Calì, 45 anni, papà di due figli, questa mattina, ha raccontato la sua vita e la sua storia di imprenditore minacciato dalla mafia. Gianluca Maria Calì, insieme a Giovanna Raiti, sorella di Salvatore, carabiniere ucciso dalla mafia, hanno portato la loro testimonianza agli alunni del Liceo Scientifico “Vittorini – Gorgia” di Lentini. L’iniziativa è stata promossa e organizzata dalla dirigenza scolastica e coordinata dalla professoressa Rita Privitelli, referente “Educazione alla Legalità” del Liceo Scientifico “Vittorini – Gorgia” è stata moderata dagli alunni delle classi 4 B e 4 C. L’incontro è stato aperto dai saluti del dirigente scolastico Vincenzo Pappalardo che ha sottolineato l’impegno della scuola nei diversi aspetti per dare la possibilità agli alunni di costruire percorsi di Legalità e le domande degli alunni ai due testimoni di “Legalità”. Tra gli ospiti i soci dell’Associazione nazionale carabinieri in congedo,sezione di Lentini, guidati dal presidente Andrea Chiarenza e i soci dell’Associazione nazionale polizia di Stato, sezione di Lentini guidati dal presidente Vincenzo Laezza, il coordinatore dell’associazione “Amici di Giovanni Falcone” Aldo Failla, ex dirigenti scolastici e docenti. Poi la testimonianza di Gianluca Maria Cali, autore del libro “No Mafia. La dignità di alzare lo sguardo al futuro”. “ Ho iniziato ad andare in giro per le scuole, a raccontare la mia storia – Quella di un piccolo imprenditore che ha detto «no» a Cosa nostra e contribuito – denuncia dopo denuncia – a far arrestare venti mafiosi. E che adesso è minacciato brutalmente qui, a Milano, dove vive e lavora. «Ho deciso di parlare forte e chiaro perché tutti mi sentano, a partire dai bambini e dai ragazzi, dai genitori, le istituzioni. Intorno a noi – io, mia moglie Silvia, e Francesca e Giulio, i nostri figli che hanno sette e sei anni – deve crearsi solidarietà, non esclusione». Il suo è un appello coraggioso e a mani giunte: «Se ci isolano, siamo finiti». Dopo quattro anni di avvertimenti e ritorsioni ai parenti in Sicilia, a Casteldaccia in provincia di Palermo, dove è nato e ha fondato la concessionaria d’auto Calicar (fiori e proiettili sullo zerbino, inquietanti visite e richieste, decine di macchine incendiate), Gianluca Calì ha visto salire il pericolo fino a qui. Intimidazioni arrivate fin dentro il suo ufficio di via Gallarate, poi nell’agenzia di pratiche auto della moglie. Infine, un mese fa, l’episodio che li ha sconvolti. Una Mercedes nera coi vetri oscurati si è fermata fuori dalla scuola dei bambini in zona corso Genova: «Alla nostra babysitter, che teneva per mano Francesca e Giulio, un uomo con accento siciliano ha chiesto se erano i miei figli. Lei per fortuna ha risposto di no e l’auto si è allontanata». Ma da quel giorno in famiglia è cambiato un po’ tutto. «Se io ho scelto e mia moglie mi segue pur con molti dubbi –dice Calì -, i piccoli in questa storia non devono entrare». A parte le minacce, si sente il peso di una solidarietà che fa acqua. Il perché è fin troppo facile da intuire. Hanno paura tutti, comprensibile. Ma è il caso di arrendersi? O conviene invece urlare ancora più forte la lotta, perché tutti sentano, tutti ascoltino, e a nessuno venga in mente di tapparsi gli occhi e lasciare ad altri, da soli, il problema? Gianluca ha scelto la seconda strada. Lo Stato deve proteggere chi fa con senso civico la sua parte». La storia da imprenditore di Gianluca Calì inizia come venditore di auto e poi socio di una delle più grandi concessionarie Bmw, in viale Certosa. L’idea di aprire un salone d’auto nella sua terra d’origine, ad Altavilla Milicia, poi nel 2010 l’acquisto all’asta di una casa sempre lì, nei pressi di Palermo, senza avere idea che quella casa fosse stata del padrino Michele Greco detto «il Papa». Quindi i «no» alle richieste di pizzo del clan di Sergio Flamia, boss di Bagheria, ora collaboratore di giustizia che ha confessato quaranta omicidi, autista di fiducia di Bernardo Provenzano. E chi lo sapeva? Calì all’inizio era ignaro di tutto. Poi la consapevolezza, la rabbia, la paura. Ma anche quella frase fissa in testa, sempre: «Io non mollo. Che la gente mi aiuti. Oggi dopo anni, lo Stato vince. Sono arrivate le sentenze e le condanne». Poi la testimonianza di Giovanna Raiti, sorella del carabiniere Salvatore Raiti, barbaramente ucciso dai mafiosi nella cosiddetta “strage della circonvallazione” a Palermo il 16 giugno 1982. La signora Raiti, non ha saputo nascondere l’emozione nel ricordare il fratello e le altre vittime del cruento attentato mafioso di tanti anni fa, quando lei aveva solo 18 anni. L’emozione ha contagiato anche l’attenta platea di alunni e docenti che si è visibilmente commossa alle parole della relatrice. Non si può certo dimenticare una tragedia di queste proporzioni, che resterà per sempre scolpita dentro di lei ed i suoi familiari. Ma l’importante è che questa tragedia sia divenuta punto di forza per combattere contro le mafie, all’interno dell’Associazione “Libera”. “Per me è un dovere non fermarmi nel raccontare la storia di mio fratello e delle altre vittime! Finchè c’è vita abbiamo la speranza di cambiare la cultura mafiosa!”. “Grazie per la vostra testimonianza – ha detto il dirigente scolastico Vincenzo Pappalardo – i nostri ragazzi oggi hanno vissuto una giornata importante”.