L’intervista con Tommaso Cimino è stata un’esperienza meravigliosa e appassionante. Si avverte subito che per Tommaso la cultura non è una questione “tecnica”, ma di “cuore” e di pura emozione. Lo si nota questo dalla modalità con cui ha risposto ad ogni domanda. Nessuna risposta sbrigativa oppure superficiale, bensì approfondita e sempre alla ricerca di quell’incontro con una sconfinata voglia di sapere, conoscere, investigare, curiosare, scrutare, ragionare e discernere. E’ proprio una bella intervista quella che ci ha rilasciato Tommaso. Il suo entusiasmo per quello che fa in termini di creazione e composizione culturale non ha limiti. La cultura è la parola chiave attorno alla quale gira l’esistenza di Tommaso. Ma ora diamo la parola al diretto interessato.
Quando hai iniziato a occuparti di poesia e di cultura in generale?
“Emanuele, sono davvero molto restio ad affermare che mi “occupo di poesia e di cultura”, perché chi lo fa professionalmente conosce sempre più i tanti limiti della propria attività. Io aggiungo anche la coscienza sempre più netta delle enormi lacune nelle mie conoscenze; ed è una gioia, perché ho sempre qualcosa di nuovo e bello da studiare, e siccome non disdegno alcun argomento, vedo la mia profonda ignoranza non come un limite ma come uno sprone. Certo, sapere con certezza che non potremo conoscere un’infinità di ottima musica, splendidi film, bellissimi libri, è snervante e disperante; ma questo fa apprezzare molto di più ogni scintilla di luce che possiamo cogliere.
Ho iniziato a diciott’anni, quando ho conosciuto il mio paterno amico Guglielmo Tocco ed abbiamo intrapreso una lunga collaborazione durata poco meno di vent’anni, tutta attorno ai “Luoghi Gentili”, alla rassegna annuale del “San Valentino in piazza” a Lentini, dunque alla poesia, all’arte in generale, e alla promozione culturale. Ne parleremo per approfondire.
Fra il ‘98 e il ‘99 ho iniziato anche a scrivere e curare la presentazione di volumi di poesia e narrativa, mostre d’arte e ad abbozzare alcuni saggi di critica letteraria. Mi fa piacere ricordare il primo scritto meno acerbo di quegli anni, vale a dire la prefazione alla raccolta di versi Una finestra sul mare, opera dell’artista e poeta Amedeo Nicotra e pubblicata nel 1999 dall’editore Flaccavento: figuriamo insieme a mio padre, collega e carissimo amico di Amedeo; ed è stato un grande onore ricevere la fiducia di poter scrivere quelle righe. Proprio grazie ad Amedeo quelle pagine hanno aperto la strada alla collaborazione con la “Nuova Galleria Roma” di Siracusa, e con tanti amici conosciuti negli anni.”
Perché avevi scelto una tesi su Sebastiano Addamo?
“Beh, mi sono laureato in Lettere ma non ho mai smesso di coltivare la filosofia, e so bene di averla frequentata fin da bambino con le mie letture tutt’altro che adeguate alla mia età.
La scelta di occuparmi di Sebastiano Addamo è stata naturale: mio padre era stato suo alunno, e raccontava spesso un aneddoto molto succoso e divertente che riguardava entrambi, una loro chiacchierata che mi faceva emozionare e inorgoglire mentre mi regalava molta allegria. Più volte, del resto, avevamo pensato di andare a trovare il professore a Catania, senza poi rendere concreto quell’incontro. Quando nel 2000 Sebastiano Addamo è scomparso noi membri dell’associazione “Luoghi Gentili” gli abbiamo dedicato un intero numero della rivista mensile di poesia Le cicogne. Nido di poesia ed arte, che avevamo già avviato insieme ad alcuni carissimi amici quali Salvo Cultrera, Renato Demma, Giuseppe Marziano e Alfio Santocono, e Guglielmo mi ha affidato la pagina di presentazione e la scelta dei testi. In quello stesso anno ho pubblicato un breve saggio intitolato Il mutamento delle rive in suono. I poeti lentinesi da Gorgia al Terzo Millennio, ed ho approfondito la figura di Addamo poeta, così come poi ho continuato a fare nella prefazione al volume di poesie di San Valentino del 2005, intitolata Sebastiano Addamo: il poeta del disincanto e dell’incanto. Nello stesso 2005 mi sono quindi laureato, con una tesi dedicata all’intera opera poetica di Addamo pubblicata in volume, all’interno della quale ho prodotto l’edizione critica della sua ultima, bellissima raccolta di versi, Alternative di memoria, uscita presso l’editore Scheiwiller di Milano. La scrittura di Addamo era stata infatti indagata principalmente — come accade ancor oggi, a dirla tutta — nella dimensione della prosa, soprattutto quella dei romanzi e dei racconti; ma Addamo è stato sempre anzitutto un poeta, anche negli squarci del primo scritto in prosa narrativa, Violetta, e poi all’interno del capolavoro Il giudizio della sera e poi nel romanzo potente e disincantato, Un uomo fidato. Ed è stato sempre un poeta-filosofo, fin dalla sua formazione universitaria e dalla sua tesi di laurea; filosofo capace di uno sguardo penetrantissimo sulla realtà e però pronto a cercare ragioni e fondamenti intrecciando Marx e Nietzsche, Heidegger e Kant, l’amato Montale e T.S. Eliot, Rilke e Baudelaire, Gottfried Benn e Spinoza, oltre al grandissimo esempio del suo amico Leonardo Sciascia e a quello di Albert Camus. Un autore, un filosofo in versi come Addamo non poteva restare, ai miei occhi, inesplorato nella sua componente più lucida e folgorante, qual è quella della poesia: e quindi mi sono dedicato a un lavoro certosino di catalogazione (in cui è stata preziosissima la pazienza complice di mia madre) ed analisi. È stato un lavoro che non ho però dismesso dopo la laurea, e che sto portando avanti per una prossima pubblicazione.”
Cosa ha significato poter collaborare con una persona splendida come Guglielmo?
“Sai, Emanuele, Guglielmo è stato come un padre spirituale per me. Quando ci siamo visti per la prima volta (i miei genitori si conoscevano da ragazzi con Guglielmo e Lidia, sua moglie, ma io non avevo mai incontrato Gug) lui è arrivato al Liceo Scientifico, è entrato in classe salutando il prof. Alfredo Sgroi che faceva lezione di filosofia in quell’ora, ed ha chiesto col suo largo affabile sorriso chi fosse il poeta della classe. Ancor prima che io potessi nascondermi in qualche modo per dar seguito alla mia ritrosia i miei compagni avevano quasi tutti all’unisono pronunciato il mio nome; e lui mi donò quindi una copia di quel Rose rosse, rose blu che è il primo dei volumi del “San Valentino in piazza”, che dall’anno successivo nel 1999 avrei contribuito a realizzare dalla prima all’ultima pagina insieme a Guglielmo, e poi con la preziosa collaborazione di Salvo Cultrera. Conoscere Guglielmo, lavorare con lui e soprattutto condividere dei progetti e apprezzare il suo fervore visionario, le tensioni di una scoperta religiosa che ho avuto la fortuna di condividere, il brio artistico, la profondità creativa nella pittura, nella poesia, mi hanno insegnato ad avere orizzonti vasti, e obiettivi elevati. Gug è stato un maestro per il saper parlare in pubblico, per il porgere discorsi anche difficili e divulgare in modo accattivante: mi aveva riservato uno spazio per ogni nostra presentazione mensile della rivista Le cicogne e all’interno delle sue pagine, e quei dieci minuti con il pubblico erano sempre una stupenda emozione e un’importantissima palestra.
Guglielmo mi ha fatto conoscere tantissimi poeti, artisti, musicisti, così come momenti di storia della nostra terra e grandi idee politiche e civili; abbiamo scritto e recitato e cantato insieme, dentro mille occasioni insieme, per dei suoi spettacoli e per gioco in casa e fuori; soprattutto, fra i tanti insegnamenti, voglio ricordarne due, apparentemente slegati ma invece vicinissimi. Anzitutto il rigore verso ogni creazione artistica: dal preparare un palco per uno spettacolo al controllare le bozze di un libro accanto ad un tipografo (il nostro Vincenzo Panebianco, professionista di grande bravura), al curare la comunicazione di ogni evento, fino al sapersi godere, improvvisando se necessario, il piacere di regalare emozioni ad un pubblico, perché se manca il divertimento allora è giusto fermarsi. Oltre a questo, un grande insegnamento ancora una volta riguardo la poesia: mostrandogli i miei primi versi, dopo una attenta lettura mi disse di trovarmi, più che poeta, un architetto; e che i miei testi quindi erano come delle costruzioni tese a dimostrare qualcosa. Aveva toccato un fondo di verità che sento davvero mio dopo tanti anni, ed anzi ancor più nitido. Per questo ti dicevo poco fa che sono resti a considerarmi un poeta, perché mi trovo più a mio agio dicendo che cerco di essere un filosofo in versi.”
Mi vuoi parlare della tua produzione letteraria?
“Emanuele, questa è una domanda che mi fa imbarazzare, specie dopo quel che ci siamo detti finora.
Ti rispondo con molta sintesi, proprio per mantenere il garbo di chi non parla di sé stesso e non si loda.
Ho pubblicato tre volumi di poesia (La discesa dal paradiso, Stagione di vento è questo tempo, Fra il nulla e il tutto dove regna amore) e gli ultimi due hanno raggiunto il podio nelle ultime edizioni del Concorso Internazionale di poesia “Libri di-versi in diversi libri”, curato e organizzato dall’editore Francesco Urso di Avola. Poi ci sono molte poesie e prose narrative sparse in pubblicazioni antologiche, italiane e straniere (una è uscita, per le cure del carissimo amico Filadelfo Giuliano, presso la casa editrice Balt-East di Praga): non le ho ancora raccolte in volume singolo, e del resto c’è sempre tempo per farlo. Un mio saggio dedicato ai rapporti fra il pensiero di Gorgia da Leontinoi e la riflessione indiana antica delle Upanishad riguardo il tema della parola poetica, La ‘potente signora’ del Mondo. Gorgia e le Upanishad sul ruolo della poesia, è uscito nel 2019 all’interno del volume La forza del Logos. Gorgia a 2500 anni dalla nascita, che raccoglie gli Atti dell’ultimo Convegno internazionale dedicato al filosofo nostro concittadino. Altri miei saggi di storiografia filosofica, filosofia teoretica e di critica letteraria in cui mi sono occupato ancora di Sebastiano Addamo, di Gorgia, del filosofo giapponese Kuki Shuzo, del poeta austriaco Georg Trakl e della nostra Maria Luisa Spaziani, sono stati pubblicati in diverse riviste, cartacee e online. Ho scritto negli anni tantissime prefazioni e introduzioni a volumi di poesia e di narrativa di autori locali, e come ti dicevo prima anche tantissimi saggi critici per la presentazione di mostre di pittura, scultura e fotografia principalmente presso la Galleria Roma di Siracusa; ed anche questi scritti non sono stati raccolti e si trovano anche qua e là su Internet. Mi fa piacere ricordare l’introduzione al romanzo autobiografico America lontana di Giuseppe Pugliares, Vivian Hernández Dorta e Cecilia Valdés Sagué, che nel 2018 ha partecipato con molto successo alla Fiera Internazionale del Libro di L’Avana a Cuba.
Ho due blog online, uno per gli scritti di tipo narrativo e uno per quelli saggistici; un’opera teatrale in forma di dialogo filosofico già pronta per la pubblicazione e dei saggi a cui sto lavorando, oltre alle mie poesiole: e credo con questo di averti detto quel che di davvero significativo c’è nella mia produzione.”
C’è anche una collaborazione con una radio. Come portare la cultura attraverso gli strumenti di comunicazione la cultura alla gente?
“Quella con Radio Una Voce Vicina è una collaborazione preziosa per me, ed un grande onore, perché spesso sono ospite di Emanuela Ruma e Salvo Fichera nella loro trasmissione Una Voce in Blu, e mi tornano in mente i ricordi di quando, per più di un anno e con mezzi molto artigianali ho avuto una radio online tutta mia, con una trasmissione giornaliera, Radio Wabibito, che poi diffondevo in podcast e sui social network. Per rispondere alla tua domanda non solo ti dico che è giustissimo appropriarsi tecnicamente di questi strumenti di comunicazione per utilizzare al meglio le tecnologie contemporanee e portare la cultura; ma ti dico anche che in molti casi non c’è affatto una banalizzazione dei contenuti quando questi sono trasmessi su un social network, in televisione o alla radio, che dopo la tecnologia della carta è il più antico strumento di comunicazione sociale ancora vivo e vegeto. Il come, il modo che hai evocato, ha degli ottimi esempi di divulgazione: Piero ed Alberto Angela, o David Attenborough, Neil deGrasse Tyson, o Valerio Rossi Albertini, per la divulgazione attraverso le immagini e le parole, sono degli esempi formidabili; ma penso a Paolo Terni o Pietro Greco o Quirino Principe alla radio, per fare dei nomi che entrino ancor meglio nella tua domanda specifica sul questo ambiente comunicativo, e ricordare anche due grandissime voci dietro i microfoni ormai scomparse. Il come è una questione di esattezza coniugata con la leggerezza, come avrebbe detto Italo Calvino; e un altro colosso del Novecento, Carlo Emilio Gadda, in una sua pubblicazione del 1953 (sono le Norme per la redazione di un testo radiofonico, utilissime ancor oggi, e in un certo senso, anche in futuro, alla radio) in un passaggio centrale diceva: Il pubblico che ascolta una conversazione è un pubblico per modo di dire. In realtà si tratta di «persone singole», di mònadi ovvero unità, separate le une dalle altre. Ogni ascoltatore è solo: nella più soave delle ipotesi è in compagnia di «pochi intimi». Seduto solo nella propria poltrona, dopo aver inscritto in bilancio la profittevole mezz’ora e la nobile fatica dell’ascolto, egli dispone di tutta la sua segreta suscettibilità per potersi irritare del tono inopportuno onde l’apparecchio radio lo catechizza. È bene perciò che la voce, e quindi il testo affidatole, si astenga da tutti quei modi che abbiano a suscitare l’idea di un’allocuzione compiaciuta, di un insegnamento impartito, di una predica, di un messaggio dall’alto. L’eguale deve parlare all’eguale, il libero cittadino al libero cittadino, il cervello opinante al cervello opinante. Il radiocollaboratore non deve presentarsi al radioascoltatore in qualità di maestro, di pedagogo e tanto meno di giudice o di profeta, ma in qualità di informatore, di gradevole interlocutore, di amico. Mi sembra un ottimo insegnamento da tenere a mente sempre, quando si parla con qualcuno, e quando si scrive, cioè quando in generale si fa cultura, che è una questione di comunità.”
Per te la parola cultura cosa significa?
“Emanuele, per la mia formazione di filologo, e poi per il mestiere che svolgo, mi piace andare all’etimo delle parole, perché in esso è racchiusa la radice vera del significato, che poi spesso la patina dell’uso e quella del tempo rendono meno comprensibile. Cultura ha nella sua etimologia il senso del “sacro”, il culto come rituale che si opera verso qualcosa di importante e quasi intoccabile per il suo pregio; dall’altra parte ha il senso della “coltivazione”, della “coltura” in quanto opera paziente verso la terra, il dissodarla e toglierne i sassi (mi viene in mente una fulminante poesia di Mario Tobino, che dice: Subito sotto la terra/ vivono i sassi./ Se qualche fiore spunta/ ha faticose radici; in un certo senso parlava di cultura) per farne poi dei muri, per proteggere e delimitare; un’opera che deve saper attendere che i semi piantati, si spera in un terreno fertile, possano poi dare i loro frutti ed espandersi, crescere come nella parabola evangelica, per dare il dieci, il trenta e il cento, e diventare da un granello piccolissimo un grande albero che offre ombra e riposo. Dunque cultura è davvero qualcosa di concretissimo, insieme all’ideale regolativo che ognuno di noi dovrebbe avere: Terenzio diceva “Sono un uomo, e penso che nulla di ciò che riguarda l’uomo mi sia estraneo”. Oggi una frase del genere dovrebbe essere scritta e ripetuta ovunque, non tanto per neutralizzarne la portata universale, ma per farla diventare come il respiro, perché prendersi cura e coltivare, dunque rendere sacra qualcosa e donarla agli altri, dovrebbe essere il prossimo passo dell’umanità che si evolve. Del resto, per fare cultura si dovrebbe sempre avere curiosità, farla nascere negli altri e non perderla in sé stessi, fino all’ultimo respiro di questa forma di vita che ci è data.”
Tu sei insegnante….come lo vedi l’universo giovanile da questo punto privilegiato di osservazione?
“Me lo chiedi perché ti ho parlato del far nascere la curiosità e coltivarla? Nel corso del mio insegnamento ho avuto alunni dai dieci agli ottant’anni, e per tutti è stata una questione davvero importante quella di saper costruire i rapporti e grazie a questo riuscire a stimolare il loro pensiero, ti direi socraticamente — e Socrate è stato un ottimo insegnante, decisivo per tutto l’Occidente ed il mondo in generale. Più importante di “sapere” le cose è sapere “dove” e “attraverso quali strumenti” andare a cercare, diceva Umberto Eco, altro ottimo insegnante. Per rispondere allo specifico della tua domanda, posso dirti che si fa sempre più netto lo scollamento fra ciò di cui parliamo noi insegnanti e ciò di cui parlano, di cui vivono i giovani. Noi adulti siamo gli ultimi frutti di un’educazione lunga cinquemila anni, che si è formata nelle steppe dell’Asia centrale, si è propagata dall’India all’Islanda attraversando l’Europa, e si è intrecciata con le culture presenti nel Mediterraneo. Telefono e televisione a parte, noi abbiamo condiviso strumenti, gran parte delle idee e delle abitudini con i nostri progenitori delle prime civiltà, o di quel che chiamiamo Medioevo: derivati del fuoco e della ruota più o meno complessi, in sostanza. Oggi i giovani che frequentano la Scuola vivono in un ambiente comunicativo e informativo complessissimo, dove regna una bulimia di stimoli difficilmente immaginabile fino a qualche anno fa; e mancano spesso di alcune abilità che noi, figli di una lentezza ben diversa, abbiamo sviluppato con più calma. Spesso in questa società ormai non più soltanto “liquida” da tempo (perché da anni gli studiosi parlano di “società gassificata” dove i rapporti sono quelli di una fisica sociale dettata dagli sbalzi di temperatura e pressione che stiamo vivendo più nettamente da un anno, con le prime forme di confinamento di sicurezza) i giovani trovano a Scuola un’ancora cui affidarsi e un ponte per traghettare sé stessi e la propria vita nel futuro. Non è più, almeno in Italia, la “leva di promozione” sociale generalizzata di qualche decennio fa, sia chiaro; ma resta il fatto che in una società in cui gli scolari di oggi, nella loro vita adulta, avranno sempre più a che fare con sistemi automatizzati e intelligenti (dai famigerati “algoritmi”, che in verità esistono da sempre nella storia umana, fino agli “automi” produttivi e decisionali, che già oggi compiono scelte fondamentali di cui noi pochissimo ci rendiamo conto, pur avendo la possibilità di informarci e sapere), questi stessi scolari dovrebbero poter imparare quel che difficilmente (ancor per poco però) una macchina saprà fare — vale a dire provare emozioni e costruire sentimenti con i quali scegliere saggiamente e in modo realmente umano, cioè ben diversamente da come l’umanità ha fatto finora però con guerre e sfruttamenti di vario tipo verso gli uomini e verso l’ambiente. Viviamo nella piena esplosione del potere della tecnica, ha spiegato Emanuele Severino; ed in qualche misura dobbiamo affrontare l’incertezza rispetto allo sviluppo di questa tendenza con la coltivazione di abilità differenti rispetto a quelle soltanto “tecniche”, perché queste ci distingueranno dalle macchine e ci renderanno un po’ più liberi attraverso la consapevolezza, mentre le macchine diventeranno sempre più efficienti in termini di potenza di calcolo. Il divario profondo che la Scuola dovrebbe insegnare è fra ciò che si può calcolare, e ciò che non si può e non è giusto calcolare: l’aveva intuito già il nostro Gorgia da Leontinoi. Questo, quando viene spiegato ai giovani, è la scintilla più potente: lo capiscono, e in certi casi si entusiasmano molto e prendono sul serio il compito di vita che spetta loro; in altri casi (non importa stabilire se siano tanti o pochi, perché uno soltanto è già un enorme peccato: dovremmo tutti ricordarci di quella splendida poesia di John Donne, Nessun uomo è un’isola…) quei giovani si disinteressano, non studiano e non vedono una corrispondenza fra quel Dante che quest’anno ha i suoi settecento anni dalla morte e la loro vita quotidiana; o non la vedono con la chimica, il diritto, l’arte, l’ingegneria; non la vedono nemmeno con la poesia, che è quanto di più giovanile possa esserci nel pensiero umano. La grande tristezza è questa; ma è lo sprone, perché i giovani hanno spesso voglia di capirsi e farsi capire, oltre le banalità e le semplificazioni di una frase di questo tipo. La Scuola in Italia, con tutti i suoi punti estremamente critici, può ancora offrire uno spazio per far ciò, e coltivarlo, come dicevamo prima. Altrove essa offre, molto più che nel nostro paese, esempi chiarissimi di come istruendosi si possa cambiare il proprio destino e quello del mondo in cui si vive: dovremmo fare in modo che l’idea di studio come “studium”, l’«intenzione» radicata con la quale si compiono delle scelte, torni ad essere il motore della propria vita, e non solo per i bambini, ma per tutti quelli che davvero vogliono studiare, abbiano pure ottant’anni, come ti dicevo prima. Non è un compito facile, ma è il compito più degno per un insegnante: e tutti, in questo senso, siamo insegnanti per le altre persone.”
Di cosa avrebbe bisogno Lentini per risorgere? Forse più di cultura?
“Sai, Emanuele, io non mi occupo della “partitica”, ma al massimo e solo molto lontanamente della “politica”, i due concetti essendo distinti in una azione concreta (che necessariamente è fondata e crea delle “parti” e dei “partiti”) e in una azione teorica (che si occupa più genericamente di quel che la polis è, e di quel che dovrebbe e potrebbe essere). Ho sempre considerato questa distinzione necessaria per essere liberi nel conoscere e nell’agire; e del resto non ho mai avuto e non ho velleità di entrare nell’agone partitico, perché la “parte” mi interessa poco; figurati, fin da adolescente ho sentito forte in me una pulsione, che veniva e viene dagli studi e dalla curiosità, a sentirmi “cosmopolita”, ma proprio nel senso forte di avere una cittadinanza che dal radicamento inevitabile nel territorio in cui si vive poi vada molto attivamente verso il resto del mondo e delle culture. Cosa c’entra questo con Lentini? Beh, quest’anno la comunità di Lentini e Carlentini, l’antica Leontinoi, compie duemilasettecentocinquant’anni dalla fondazione greca: è una data importantissima, che davvero poche altre città possono vantare nel mondo (ce ne sono di estremamente più antiche, è chiaro; ma la maggioranza è di città più moderne, senza il bagaglio prezioso del nostro passato). A me però ha subito stimolato, quando il mio fraterno amico Giorgio Franco mi ha confidato questa sua “scoperta” ormai due anni fa, un pensiero: duemilasettecentocinquant’anni è, letteralmente, un endecasillabo, un verso poetico con tutti gli accenti ed il ritmo corretti. Ti sto rispondendo che serve più poesia per Lentini? In un certo senso sì, anche a dispetto di tutti i problemi gravissimi, enormi, che abbiamo nel territorio e fra la popolazione: incidenze di malattie tragiche, l’enorme discarica di rifiuti, lo spopolamento di una grandissima parte di giovani che è stata ed è costretta ad emigrare e decide poi di non rientrare, gli effetti di una crisi economica che colpisce gravosamente la Regione, l’Italia e in generale il Sud del Mediterraneo. Se Guglielmo fosse ancora con noi avrebbe aggiunto anche altri elementi importanti in questa riflessione. Quel che tu dici “risorgere” quindi è una questione duplice: chi pensa ad una sorta di “autonomia autosufficiente” per Lentini è fuori dal Mondo e dalla Storia. Basta studiare un pizzico leggerissimo di Geografia economica per seguire e verificare l’evoluzione della città, lo spostamento dell’asse produttivo e abitativo, e per predire con un certo margine quel che sarà da qui ai prossimi decenni, se le tecnologie e le forme economiche resteranno più o meno queste e non avranno drastiche rivoluzioni. Ma qui non siamo a Scuola quindi mi fermo con la semplice ma importante spiegazione che seguirebbe da queste premesse, e con le azioni che ne potrebbero derivare. D’altro canto, chi pensa ad una specie di “autonomia integrata” per Lentini, in modo da riguadagnare un “rinascimento” più che un “risorgimento” per la città, deve mettersi seriamente a studiare, e in ogni campo del sapere. Deve conoscere gli ultimi risultati della meccanica quantistica e le tendenze dell’enologia eroica sui terreni ardui, le tecniche di produzione dei tessuti a partire dai vegetali così come l’econofisica e l’economia ergodica, l’analisi dinamica non-lineare così come le tecniche di agricoltura idroponica agli ultravioletti, la storia del teatro giapponese e la narrativa e la poesia contemporanee; e sai perché? Perché quando mi dici che forse serve più cultura io continuo a risponderti che serve più poesia e più “studium”, più consapevolezza anche di cose che apparentemente sono inutili, apparentemente inservibili nell’immediato per risolvere i problemi tangibilissimi che abbiamo. Perché la pretesa di risolvere i problemi senza conoscere quel che accade nel Mondo, vicino e lontanissimo, ha privato di idee fervidissime le menti di chi ha amministrato non Lentini, ma l’Italia e l’Europa negli ultimi decenni.
Sembra che io parli a vuoto, è evidente: una poesia può forse portare posti di lavoro? O far aumentare gli introiti di una azienda costretta a chiudere, o asciugare le lacrime di persone con familiari, amici, persone care malate di cancro? Una poesia può solo insegnare a dare valore alle parole, ad usarle con precisione, a pensare in modo molteplice, a trovare significati fra le righe ed a valutare interpretazioni creative, che siano tolleranti verso le altre interpretazioni e le sappiano integrare in una visione che fa nascere luce dalla resistenza delle parole stesse e delle idee da esprimere, come il filo elettrico della lampadina, che è piccolissimo e proprio per questa resistenza si illumina (lo diceva, in altri termini filosofici, il nostro Gorgia, duemilacinquecento anni fa, e poi lo ha ripetuto un grandissimo poeta del Novecento, Andrea Zanzotto). Allora per Lentini serve più cultura: che non è certo soltanto quella fatta e costruita sui libri, anzi; è il prendersi cura della città, non a parole ma con il rispetto concreto di noi stessi e degli altri, dei terreni, dei palazzi, delle tradizioni, della storia, e con il rispetto verso le persone e verso il futuro. Ed anche questa è una risposta vuota, perché mi dirai: “E se i soldi non ci sono? ”, come del resto sappiamo. Quello è un problema “partitico”, di cui non ho alcuna competenza per rispondere; ma politicamente ti dico che è con l’intelligenza e la cultura che le città richiamano investimenti dall’esterno, e non perdono la loro identità (qualsiasi cosa voglia dire questa parola abusata e tanto difficile da definire concretamente, nel 2021). Nel tempo in cui l’umanità sta evolvendo verso il superorganismo di cui parlano i biologi da decenni, ogni punto della enorme rete di comunicazione di informazioni, merci, persone, energia di tutti i tipi (dall’energia termica all’energia culturale, per intenderci), ogni città e ogni cittadino possono quindi essere “centro” e “periferia”. Lentini è storicamente, da quando è stata fondata come colonia, una città dalle grandi particolarità rispetto ad altre: lontana dal mare a differenza delle altre colonie greche della prima fase della penetrazione in Sicilia; a cavallo tra collina e pianura; sui fiumi e poi con un lago; ed oggi con un collegamento importante su una serie di direttrici fondamentali — stradale, ferroviaria (se solo si volesse da parte di chi sa e decide), energetica, delle telecomunicazioni (a poca distanza giunge uno degli snodi delle fibre ottiche più importanti del Mediterraneo), agricola, culturale, turistica. Abbiamo avuto concittadini che sono, con le loro opere, capisaldi della cultura occidentale e mondiale: dico solamente i nomi di Gorgia e di Giacomo da Lentini; l’elenco è lunghissimo, e però già loro due soltanto potrebbero assurgere al tempio dei più importanti dell’umanità. Serve una enorme cultura per saper gestire questo patrimonio che da duemilasettecentocinquant’anni si sviluppa nella nostra comunità, perché abbiamo intelligenze brillanti: e sai, potrebbero risolvere problemi anche immediati con gli strumenti che proprio la tecnica di cui parlavamo poco fa mette a disposizione. Hai mai pensato ad un’app per vendere a prezzo di realizzo i prodotti invenduti delle attività commerciali di Lentini e Carlentini? In altre città da anni l’economia ha enormi fatturati ottimizzando così gli scambi, e qui dove abbiamo sacche di povertà estesissime ancora nessuno ci ha pensato? E un’app per una “banca del tempo”, con persone che forniscono le loro prestazioni d’opera proprio in termini di tempo agli utenti che sono impegnati e non possono averlo (dal portare a passeggio i cani al fare la fila all’Ufficio postale), perché da noi nella comunità non si usa? Questo è solo un esempio banalissimo per dirti che la cultura del patrimonio non dovrebbe occuparsi solo di libri o di passato, quanto invece grazie a questo puntare al presente ed al futuro ma con la marcia in più che quello stesso passato può fornire. Non sono un tecnico, e mi occupo di idee: qualcuno però di certo dovrebbe pensarci. Non se può occupare certo soltanto la “partitica” che per un tempo limitato amministra la città in relazione alla comunità ed al contesto più ampio, perché sarebbe come caricare di una responsabilità troppo alta chi per statuto appunto “amministra”, non “domina” le azioni politiche. Ce ne dobbiamo occupare tutti: e penso ancora al sogno di Guglielmo di fare, attraverso le poesie murali, di questa comunità un luogo migliore, e “gentile”. Il potere della gentilezza è enorme, perché fa capire molte cose, mentre oggi va di moda solo la presunta efficacia, e imperversa la rabbia. Ma ti ho risposto lungamente e mi fermo qui dunque.”
Noto che sei interessato a moltissime cose… curiosità e sete di sapere mai doma?
“Emanuele, troppo buono: ti dicevo poco fa di quel verso di Terenzio; e del resto ho imparato dai miei genitori, dalla mia maestra delle Elementari, Pina Di Mauro, e poi da alcuni insegnanti in particolare nei miei anni di scuola, ad apprezzare ed ammirare la bellezza del conoscere le cose. Eco diceva: Chi non legge, a settant’anni avrà vissuto una sola vita: la propria. Chi legge avrà vissuto cinquemila anni: c’era quando Caino uccise Abele, quando Renzo sposò Lucia, quando Leopardi ammirava l’infinito… perché la lettura è una immortalità all’indietro. Io aggiungo al fatto della lettura una sorta di amicizia: si può essere, attraverso la curiosità, amici di Giuseppe Peano, di Giordano Bruno, di Nikola Tesla, di Pellegrino Artusi, di Michelangelo, di Johann Sebastian Bach, e di tutti gli altri uomini e donne che hanno reso possibile che noi facessimo questa chiacchierata. Poi aggiungo col sorriso anche un fatto personale: da bambino, verso i cinque anni, imparavo a scrivere con mia madre, e un giorno tornando dalla Scuola materna con un quadernino con pagine e pagine riempite di vocali, mia madre fu sorpresa e come piccolo premio mi diede una fetta di mortadella in più nel panino, perché avevo un appetito spiccato che non mi ha più abbandonato. Da quel momento scrivere e studiare con curiosità è stato per me come la dieta davvero più varia e diversificata, dalla mia amata matematica alla filosofia fino ai cantanti italiani degli anni Trenta: un vero cibo, per il corpo e per l’anima!”
Un tuo pensiero finale sui tempi che viviamo. Cosa rappresenta secondo te questa pandemia?
“La pandemia che stiamo affrontando ci porta l’occasione per riflettere sui grandi mutamenti che stiamo vivendo, perché siamo nella spuma difficilissima di un’onda gigantesca di progresso, non sempre positivo ed estremamente complesso. Non dovrebbe essere solo una condizione fortunata di chi bene o male resiste a questa pandemia il fatto di potervi ragionare su: ci sono persone, a milioni, che in Italia e nel mondo non sanno come arrivare a domani, e non hanno gli strumenti per ragionare su cosa possa significare il tempo che stiamo vivendo. La pandemia, oltre tutte le riflessioni, ci dovrebbe insegnare a non nascondere l’amore che proviamo, perché questi confinamenti, le mascherine più o meno indossate correttamente, le distanze e le paure stanno atomizzando noi tutti. Questo tempo dovrebbe essere la base per costruire in futuro amore, contro ogni cinismo finto-intelligente da Realpolitik, disincantato e in fondo violento verso sé e verso gli altri. Per secoli si è costruita l’immagine e la pratica della violenza, che è basata sulla convinzione (errata, profondamente sbagliata in tutti i sensi) che la vera realtà delle cose sia un Nulla che subisce delle trasformazioni ma in fondo viene e torna in sé in quanto Nulla.
Le cose che noi siamo invece sono tutte unite dall’amore, fin dentro gli atomi e poi a livello universale: la morte che questa pandemia sta spargendo ci dovrebbe insegnare una semplicità della speranza che abbiamo dimenticato, da opporre a chi mostra, col dito teso, tutta la violenza che c’è da sempre e resterà per sempre. La guerra e la violenza vengono dal fatto di non dare importanza a ciò che siamo, a non vedere in noi la Luce Vera che invece ogni essere è; e questa è una semplice questione pratica, concreta, che dimentichiamo spesso però. Dare un bacio, stringere, abbracciare, consolare, regalare tempo, pulire, prendersi cura, pensare, trovare una soluzione insieme, costruire e non prevaricare, non distruggere; in sintesi, dare e mettere in luce non sono parole vuote, ma gesti che ognuno di noi può compiere, anche nel pochissimo che crediamo di essere. Hai mai provato quel gioco matematico che si trova in Rete? Quello in cui si prende una calcolatrice e si esegue l’elevazione a potenza di 1 elevato a 365, quanti i giorni dell’anno? Il risultato è sempre 1, ovviamente. Poi si chiede di elevare 1,01 sempre a 365, come per dire che per ogni giorno basta un centesimo in più; ed il risultato è 37,783434332887158877616604796498… La pandemia ci insegna limiti alle pretese, perché non ne siamo usciti migliori affatto, anzi; ma può insegnarci quel che diceva una bellissima poesia di Albert Camus che tempo fa ho condiviso con alcuni miei carissimi amici, Gabriella, Angelo e Sebastian, Giuseppe e Francesco. La condivido anche con te ed i lettori: “Mia cara,/nel bel mezzo dell’odio/ ho scoperto che vi era in me/ un invincibile amore./ Nel bel mezzo delle lacrime/ ho scoperto che vi era in me/ un invincibile sorriso./ Nel bel mezzo del caos/ ho scoperto che vi era in me/ un’ invincibile tranquillità./ Ho compreso, infine,/ che nel bel mezzo dell’inverno,/ ho scoperto che vi era in me/ un’invincibile estate./ E che ciò mi rende felice./ Perché afferma che non importa/ quanto duramente il mondo/ vada contro di me,/ in me c’è qualcosa di più forte,/ qualcosa di migliore/che mi spinge subito indietro”.”