di Emanuele Gentile
PACHINO – Il saggio che di recente il dottore Sebastiano Lupo ha dato alle stampe riguarda Pachino, la sua città natale, e il complesso delle relazioni storico-culturali-sociali-politiche che ne hanno determinato la propria identità. Un volume senz’altro interessante in quanto approfondisce, in virtù di intelligenti metodi analitici, i multiformi aspetti della storia di Pachino dalla sua fondazione fino ai giorni nostri. Alcuni aspetti che emergono dalla lucida quanto complessa analisi possono senz’altro essere elevati a modello per l’intera provincia siracusana. Anzi, per certi versi, Pachino può essere considerato un luogo dove le criticità provinciali trovano un fertile terreno di coltura e sviluppo. Da qui la necessità di riflettere attentamente sulle vicende accadute al fine di costruire una via d’uscita a una provincia, quella aretusea, nelle spire di una profonda ed estesa crisi che è prima culturale-sociale e in seguto economica.
Alcune parole di presentazione sul dottore Sebastiano Lupo. Psicoterapeuta, neuropsicologo, psicopedagogista, è iscritto all’Ordine degli Psicologi della Sicilia numero ed esercita la libera attività professionale a Pachino (Prov. di Siracusa). Laurea in Scienze dell’Educazione presso la Facoltà di Scienze della Formazione dell’Università di Messina. Laurea Specialistica in Neuropsicologia e recupero funzionale nell’arco di vita, presso la Facoltà di Psicologia dell’Università di Bologna. Specializzato in Psicoterapia ad indirizzo Cognitivo-comportamentale presso la Scuola di Specializzazione “Aleteia” di Enna. E’ socio della SPAN Società degli Psicologi dell’Area Neuropsicologica.
Da quali esigenze di fondo nasce il suo ultimo saggio?
“Tutto il lavoro di ri-icostruzione storica e storiografica del Capo Pachino e della sua modernità parte da una condizione psicologica dell’autore che si è declinata in tre accezioni: una di carattere estetico, la conoscenza come bellezza generale di vita; l’altra più intellettuale, confutare ed eventualmente correggere una posizione storiografica sullo sviluppo locale, per cui il nativismo, cioè l’insalatiera etnica che è la cifra iniziale con cui nasce la Pachino moderna nel 1760, sia la causa prima, se non unica, dei ritardi dello sviluppo economico, sociale, civile e politico locale; l’altra di carattere etico-politica, comprendere le ragioni esistenziali che hanno determinato azioni e comportamenti ritenuti, nell’immaginario delle genti del luogo, di-svirtuosi. In buona sostanza pensavo a un sistema di cause legate alla storia come svolgimento, dunque al suo dinamismo interno, e non già al senso statico delle origini, quali “cause” dei ritardi nell’ammodernamento del sistema economico-produttivo e socio-politico. Ne è sortito un lavoro di ricerca quadriennale, a partire dalla primavera del 2015, che è stato codificato in tre libri di storia, dal mesolitico allo scioglimento attuale del Comune per infiltrazioni mafiose: Il Capo Pachino, tra miti, leggende e storia (Youcanprint), Pachino, l’altra storia le ragioni di un ritardo (Morrone editore), Promontorium Pachyni Incontro con la storia Terzo volume il Novecento, in un libro di storia della storiografia locale:La storiografia locale e i suoi problemi (le narrazioni del Capo Pachino dai logografi greci ad oggi secondo categorie storiografiche crociane), e nell’ultimo di sociologia politica: Pachino tra familismo amorale e sub-culture, tentativo di comprendere e spiegare la Pachino odierna alla luce della sua “storia di sviluppo”…”
In che modo Pachino diventa paradigma di riferimento per l’intera provincia?
“Ho realizzato un libro-ricerca che pur analizzando, nello specifico, la storia di sviluppo di Pachino nei suoi aspetti economici, sociali, civili, culturali e politici, si presenta al lettore e al ricercatore come modello generale di analisi critica delle micro-società locali. Le categorie cui fa riferimento il saggio, antropologiche, sociologiche, psicologiche, politologiche, filosofiche e storiografiche, ben si adattano ad essere applicate a tutte le micro-società (i piccoli comuni) per descriverne le traiettorie di sviluppo generale. La dimensione strutturale quale si esplica nel dualismo latifondo-piccola proprietà contadina, il modello degli stadi di sviluppo di Rostow ben si adattano a spiegare l’evoluzione socio-economico-produttiva e i relativi ritardi. Il piano sociologico è ben esplicitato dai suoi costrutti generale: il capitale sociale e lo sviluppo locale (nei lavori di Bordieu, Coleman, Putnam), la civic culture (nella politologia americana di Almond e Verba) e il familismo amorale di Banfield. La psicologia sociale ci aiuta a capire le tre sindromi patologiche comunitarie: il paternalismo delle micro-società nei suoi due aspetti libertario e autoritario; la sindrome di Siracusa, un costrutto preso a prestito dalla filosofia (metafora della trasfigurazione del naufragio di ogni passione trasformatrice della realtà, nella lettura che ne dà il filosofo Diego Fusaro con riferimento a due altre metafore il mito platonico della caverna e della gabbia d’acciaio weberiana) e l’in-coscienza felice di derivazione contrapposta alla coscienza in-felice di matrice hegeliana (nella lettura della dialettica hegeliana, servo-padrone che ne fa lo stesso giovane filosofo torinese). A queste si aggiungono altre letture, più eminentemente psicologiche che ho chiamato determinanti: la servitude volontaria e il comportamento gregario. Il piano più squisitamente di storia della politica rimanda al costrutto delle crisi di crescita dei sistemi politici applicati alla storia locale nella lettura che ne fa Giovanni Sartori. In buona sostanza il saggio ha messo a punto una metodologia generale di ricerca, confezionando degli strumenti, ovvero un “armamentario” che consente un’analisi critica in profondità delle traiettorie evolutive delle micro-società locali.”
Il suo punto di partenza sembra l’analisi che fece Banfield di un paesino della Basilicata, come mai?
“Più che il punto di partenza, mi sembra il punto di approdo, oltre Banfield, la categorizzazione socio-politica dell’attuale società pachinese, quale si configura dal lungo processo evolutivvo-sociale esaminato con le categorie anzidette. Il riferimento a Banfield nel mio saggio è esplicito e voluto, ma i meccanismi generatori del familismo amorale che il mio saggio presenta sono più generali e abbracciano più fattori. Nel saggio ho cercato di sviluppare più analiticamente alcuni fattori decisivi per la comprensione della realtà sociale, che ho già citato e che non potevano comparire nella ricerca di Banfield datata 1958.”
In quali atti e comportamenti si denota il familismo amorale di un pachinese?
“Il familismo è un sistema di atteggiamenti e comportamenti individuali e collettivi che privilegiano sempre e comunque i membri delle coorte di appartenenza. I comportamenti individuali sono diventati comportamenti collettivi delle organizzazioni private ma anche pubbliche. Sicché qualsiasi scelta che dovrebbe essere aperta a più concorrenti viene fatta sulla base dei criteri di appartenenza, sia essa un concorso, la concessione di un mutuo, la scelta di un professionista, la nomina di un’insegnante, per arrivare alle concessioni dirette di appalti pubblici. A mio parere è in questo clima familistico che si sono sviluppati quei processi degenerativi della vita politica locale che hanno condotto allo scioglimento per infiltrazioni mafiose, unico caso in 72 anni di vita democratica di Pachino.”
Mi pare che a Pachino si preferisca essere indifferenti piuttosto che cittadini…
“In effetti la cultura civica locale, come intesa da Almond e Verba, più che da indifferenza è caratterizzata da sfiducia dei cittadini verso le organizzazioni pubbliche e private, ritenute incapaci di soddisfare la domanda sociale sul piano generale del bene comune. La ricchezza di fiducia interpersonale, cioè quella ridotta ai soli ambiti familiari e amicali, non si è mai tradotta in fiducia sistemica o istituzionale, sicché, pur in presenza di uno sviluppo notevole di capitale sociale, la sua mancanza non ha prodotto che disincanto e rassegnazione.”
Quali le caratteristiche precipue delle dinamiche sociali della società pachinese?
“Sono tante e conflittuali. Ma forse quella decisiva, in grado di spiegare il passato come il presente, è il contraddittorio rapporto tra presenza di capitale sociale, nelle sue due accezioni di capitale economico e di volontariato, e il mancato sviluppo della coscienza civica pubblica. Mi chiedevo perché il rapporto capitale sociale-sviluppo economico e civile a Pachino non ha funzionato, atteso che la politologia più moderna considera proprio il capitale sociale una condizione sufficiente. E ho scoperto che la sua sola presenza non basta. La grande ricchezza di capitale economico e di volontariato iniziata negli anni ’70 del Novecento, non ha prodotto altro che rassegnazione e disincanto per via di un uso non pubblico bensì privatistico di queste istituzioni. È paradossale che proprio la Riforma dell’amministrazione dello stato (2000), la cosiddetta riforma Bassanini, con le sue deleghe al locale abbia prodotto il contrario degli obiettivi: la moltiplicazione dei centri di spesa e il loro uso a vantaggio dei privati. In questo conteso la civic culture è rimasta e rimane ancora oggi una sub-cultura di tipo parochial e subject. La distanza dei cittadini dai “centri di potere” e la sottomissione ad essi si traduce in disincanto.”
Grosso modo la storia di Pachino la si può dividere in 5 fasi: l’epoca Starabba, il periodo afferente a Di Rudinì, il periodo pre-fascista, il periodo fascista ed, infine, quello attuale. In che modo ciascun periodo ha contribuito a formare l’identità sociale, culturale e politica del pachinese?
“In realtà la storia evolutiva della Pachino moderna è un alternarsi di fasi evolutive e fasi di regresso, legate a situazioni strutturali ma, anche, congiunturali. Il ritardo alla nascita (nel 1760) e all’ammodernamento del sistema economico-produttivo (in sostanza l’agricoltura) le preclusero la partecipazione al “miracolo economico” (la crescita dell’industria enologica) degli anni ’30 e degli anni ’70 dell’Ottocento. La trasformazione della struttura produttiva (riconversione da latifondo a vigna) fu guidata da Antonio Di Rudinì a partire dagli anni ’70 ma ebbe l’incidente della fillossera (1884-85) che diede l’impulso per la seconda riconversione. Il periodo fascista e, più ancora, gli inizi del dopoguerra, portarono a compimento la trasformazione dell’apparato economico-produttivo basato sulla piccola proprietà contadina. Ma furono soprattutto le rimesse in patria degli emigranti in Canada e in Venezuela che spinsero l’agricoltura e l’edilizia. Ma è soprattutto negli anni della “ricostruzione”, dal 1946 al 1965, che il sistema sociale e politico costruisce le condizioni per la formazione di un’identità sociale, culturale e politica del pachinese. Non a torto ho considerato quelli anni l’epoca d’oro della comunità locale, l’âge d’or secondo il modello della storia del Novecento codificato da HericHobsbawm nel “Secolo breve”.Due le cifre fondamentali che dettero vita a una dinamica sociale paradossalmente foriera (eterogenesi dei fini) di risultati innovativi: lo scontro politico tra la sinistra frontista di Sebastiano Fortuna e il moderatismo cattolico della DC locale capitanata e guidata dall’on. Totò Di Martino e il contrasto interreligioso tra cattolici (il parroco Vincenzo Spiraglia) e valdesi (il colportore Biagio Panascia). Si presentarono in quei tre lustri le crisi di sistema: di secolarizzazione, di legittimazione e di partecipazione, secondo lo schema di Giovanni Sartori e furono risolte.La progressiva separazione tra stato locale e chiesa risolve la prima; il sistema democratico trova la sua definitiva legittimazione popolare con l’ingresso delle masse popolari locali, soprattutto artigiani e contadini, nelle élites politiche e amministrative.”
Insomma, l’individualismo ha impedito a Pachino di avere un reale progresso, è così?
“Certo l’individualismo come cifra personale esiste ed è ben radicato e la sua “eziopatogenesi” è stata spiegata ampiamente. Tuttavia il termine va inteso nel senso più ampio, che ho spiegato prima, quello di un uso a fini privatistici delle istituzioni private e pubbliche locali. La parabola più alta di questo fenomeno è proprio la storia di questi ultimi trent’anni. La crisi del sistema politico con l’inizio di Tangentopoli nel 1992 ha fatto nascere il fenomeno del “movimentismo locale” e, a Pachino, il movimento egemone è stato “Rinascita di Pachino”. Abbiamo assistito alla saldatura tra il background che ho descritto e la natura localistica e familistica di questi movimenti, che ha accentuato il carattere localistico e parrocchiale dell’azione sociale e politica, espandendo in tutti i gangli della comunità, in primis, nelle organizzazioni economiche sociali (le cooperative) e negli enti pubblici a cominciare dal Comune, financo nelle organizzazioni di volontariato della Chiesa locale il pensiero e i comportamenti familistici. Ritorno a dire che, non a caso, l’approdo di questo inviluppo trentennale è stato proprio il Commissariamento per infiltrazioni mafiose.”
Il sacco edilizio del territorio è una delle cartine di tornasole da cui si capisce la mancanza di una visione complessiva su Pachino, o sbaglio?
“Certamente, nella storia del Novecento locale, lo scontro istituzionale tra le formazioni politiche locali, DC, PRI, PSI e PCI, finì a tutto vantaggio delle “rendite e della speculazione” e col sacrificio di quell’unica idea di sviluppo sostenibile di cui fu portatore il Progetto di Piano Regolatore Generale, la cui redazione era stata affidata all’équipe dell’architetto prof. Leonardo Ricci di Firenze nel 1965. Con 20 anni di anticipo (la Word Commission on Environment and Development lo definì solo nel 1987) il progetto di piano elaborato dall’équipe fiorentina, era già un’ipotesi di sviluppo sostenibile, che conteneva in se anche un preogetto di sviluppo turistico. Vent’anni di scontro politico-sociale su quell’ipotesi di piano partorì una scelta tutta orientata a soddisfare i piccoli interessi della “borghesialocale”, quando non anche ella stessa classe politica, senza una visione strategica di sviluppo, men che meno di sviluppo turistico che necessitava di saldarsi a quello ecomomico-produttivo dell’agricoltura e dell’artigianato. Il “turismo” resterà per lunghi decenni l’araba fenice, l’incompiuta, e solo agli inizi del nuovo millennio Pachino ma soprattutto il suo gioiello di famiglia Marzamemi diverranno un’attrattiva turistica tra le più suggestive del paese.La storia non si fa con i se e i ma; ma viene da chiedersi cosa sarebbe oggi di questo paese e di questa laboriosa comunità se anzicché favorire la cementificazione delle coste e del territorio a macchia d’olio come voleva e volle la speculazione edilizia, si fossero realizzate le idee-progetto che indicavano lo sviluppo abitativo lungo la direttrice Pachino-Marzamemi e il ricongiungimento della madre alla figlia nei tre chilometri che le separano e il contemporaneo sviluppo di una zona residenziale turistica sotto il costone di Torre Fano. Il sacrificio di quella zona sulla direttrice Marzamemi-Portopalo agli interessi speculativi della pescicoltura, abilmente supportati, all’epocada un asse politico atipico, andreottiano-comunista, ha fatto il resto, cioè ha inibito ogni possibilità di sviluppo turistico, in una zona, tra l’altro, ad altra conentrazione di siti archeologici che tesimoniano della valenza economico-produttiva ed antropica del Capo Pachino nei nove millenni dal mesolitico alla colonizzazione normanna”.
Quale è stato ed è il ruolo della cultura a Pachino?
“Non si pensi che Pachino non abbia storia culturale. Intanto bisogna specificare l’oggetto, cosa si intenda con il termine cultura. Io la intendo nella sua accezione più ampia, quella trasmessa da un “padre” del Novecento, il filosofo francese Edgar Morin: “il patrimonio informazionale costituito dai saperi, dalle capacità pratiche, dalle regole e dalle norme proprie di una società. Essa comprende le conoscenze accumulate da generazioni e generazioni sull’ambiente esterno, sul clima, le piante, gli animali, gli altri gruppi umani; le tecniche del corpo e le tecniche relative alla fabbricazione e alle manipolazioni dei manufatti, utensili, armi, ripari, tende, case; le regole di ripartizione del cibo e delle donne, le norme e i divieti dell’organizzazione sociale; le credenze e la “visione del mondo”, i riti funerari e cerimoniali in cui si ritempra e si rigenera la comunità”. Così intesa, la storia culturale del Capo Pachino, antesignano della Pachino moderna nata sul Poggio Scibini nel 1760 ad opera della famiglia Starrabba, è tra le più ricche dell’intera Sicilia. Proprio qualche giorno fa, il 30 giugno, ho avuto modo di presentare nella suggestiva cornice del cortile “u baggiu” della Tonnara di Marzamemi, grazie alla sensibilità del suo proprietario il dott. Bonaccorsi, gli “Itinerari storico-archeologici del Capo Pachino” distinti in “Tra presitoria e protostoria”, “L’età classica greco-romana”, “Tra bizantini e arabi” e “La modernita”. Il fascino che ho letto nelle espressioni facciali degli oltre 200 turisti intervenuti nella lunga serata di presentazione, testimonia della cultura di questo territorio. Se ragioniamo in termini di risorse umane, non si può dire che la Pachino moderna non abbia “prodotto” personaggi di grande valenza culturale. Certamente una storia della cultura intesa in senso settoriale e specialistico non è stata ancora scritta, ma mi limito a indicare solo due personaggi della letteratura locale che hanno dato lustro a questa comunità. Il primo è certamente Vitaliano Brancati, erroneamente accostato ad altri comuni come Zafferana Etnea, in cui certamente ha soggiornato. I “Brancati” sono una famiglia pachinese, parte della classe dirigente di questo paese in tutto il Novecento, che ha espresso alte personalità (medici, professori universitari) e lo scrittore come espressione più alta di livello sovranazionale. Più recentemente la comunità locale ha espresso ed esprime ancora un altro scrittore, poeta e saggista, Corrado Di Pietro, che a partire dagli anni ’70 si è affermato sul piano nazionale. Un particolare contributo alla conoscenza della storia di questa comunità ha dato con i suoi scritti di antropologia e con i suoi romanzi, alcuni di tipo storico.”
Come si è evoluta nel tempo la struttura sociale di Pachino?
“Dall’originale latifondo degli Starrabba si è sviluppato una struttura economico-produttiva basata essenzialmente sulla piccola e, con pochi casi media, proprietà contadina. Questo fu l’approdo del “disegno” del marchese Antonio Di Rudinì, erede dei fondatori che guidò la comunità locale dal 1866 (anno della morte del padre) e fino al 1908 (anno della sua morte). La figura del marchese Antonio è certamente complessa e il “giudizio storico” per forza articolato. Ebbe il merito di guidare il paese nelle due riconversioni produttive agricole dal latifondo alla cultura specializzata della vite. La prima dal momento della presa di possesso dell’eredità dei feudi Scibini e Bimisca (1866), la seconda dopo il flagello della fillossera (dal 1884-85). Si oppose strenuamente in Parlamento nel 1894 alla Legge Crispi“per il frazionamento delle terre dei latifondi siciliani”, che voleva favorire la formazione di medie e grandi imprese agricole secondo i dettami dell’economia politica liberale del tempo. Difese strenuamente i privilegi nobiliari di casta impedendo il costituirsi delle condizioni strutturali per la crescita. Favorì la nascita e il consolidamento della mentalità piccolo-borghese dei gabellotti locali che guardavano ai “tirrina a ciensu” come allo strumento di progresso familiare e sociale, “il fare come il marchese”. La struttura sociale di Pachino in tutto il Novecento locale risente di questa genesi e non è un caso che nel primo dopoguerra l’organizzazione sindacale più forte nel territorio sia stata la “Coldiretti”, cioè l’organizzazione dei piccoli proprietari terrieri, chiamata in dialetto locale “i masciminici”, con un peso determinante nelle vicende elettorali e politiche future. La stessa “classe” di professionisti, per lo più avvocati e medici, era tutta di estrazione gabellotta, cioè figli di famiglie arricchite facendo il massaro o il gabellotta all’ombra del potere baronale. Ben esprime poeticamente questa stagione sociale Salvatore Pantano professore di lettere e eminente intellettuale pachinese: “Una società cristallizzata nelle antiche rivalità familiari, ulcerata da ataviche gelosie di predominio e di prestigio politico o religioso…ancora dominata da 4 medici e 4 avvocati, e dai massari terrieri una specie di sopravvissuti del medioevo, con la loro arrogante alterigia castellana e l’immancabile cappello domenicale, come distintivo di casta. Solo pochissimi, di loro, sapevano leggere e dei mastri o dei commercianti, solo pochissimi capivano quel che leggevano…Le leve del potere locale erano rimaste nelle mani dei colletti bianchi, gli eredi dei gabellotti, la nuova borghesia agraria e professionale, che aveva raggiunto il benessere economico e sociale all’ombra del baronato locale, ergendosi a nuova classe dirigente del fascismo, dopo la parentesi del periodo liberale. Sicché si può comprendere appieno come la società pachinese di quegli anni fosse interamente peggiorata sulle differenze di classe: Di chi è figlio? A chi appartiene? Questa era la tessera anagrafica di ognuno a Pachino: Le differenze sociali pesavano come palle di piombo al piede… Perciò, i ceti sociali erano rimasti ben definiti e raramente violabili”. Privilegi e diritti toccavano i pochi, solo doveri per la stragrande maggioranza del popolo minuto.”
E’ mai esistita una borghesia illuminata a Pachino?
“Quella descritta da Salvatore Pantano era la borghesia di Pachino e così si era formata nel suo ambivalente rapporto di subalternità alle due famiglie nobiliari locali, gli Starrabba-Di Rudinì e i Tasca Mastrogiovanni e di supremazia sul popolo minuto, succube e in preda, fin dalle origini, del paternalismo padronale e della Sindrome di Siracusa. Sicché mi è apparso logico e metodologicamente valido applicare alla storia locale il costrutto che Giorgio Galli ha molto ben espresso nella sua monumentale opera sul bipartitismo imperfetto, ovvero “I partiti politici in Italia 1861-1879”. Qui come nella penisola la nascente borghesia di origine rurale fu incapace di farsi carico degli interessi generali dell’intera comunità locale, come solo costituendosi in partito politico autonomo poteva fare. L’assenza di una visione collettiva e strategica dello sviluppo del paese favorì la nascita di sub-culture politiche con visioni parziali e particolaristiche, perché espressioni degli interessi delle parti sociali di riferimento: quella interclassista cattolica, quella socialista riformista e laica e quella radicale comunista. In verità un tentativo di costituire un partito borghese locale fu fatto nel ventennio tra gli anni ’60 e ’80, ad opera di un settore sociale legato all’attività artigianale delle costruzioni e egemonizzato dal connesso mondo di quelle professioni, il Partito Repubblicano Italiano. Ma fu un esperimento fallimentare, che si sostanziò della difesa corporativa di quelle classi sociali come la vicenda del Piano Regolatore Generale dimostra chiaramente.”
Che ruolo ha avuto la scolarizzazione nel delineare le dinamiche sociali pachinesi?
“In un mio recente scritto Educazione e scuola nel secondo dopoguerra ho sintetizzato i momenti salienti dei processi di scolarizzazione che hanno contribuito all’espansione della cultura nella comunità locale. L’Ottocento lascia una eredità pesante, un vuoto di intervento pubblico nel settore dell’istruzione primaria, così come della pre-alfabetizzazione. Il nuovo stato unitario e le sue classi dirigenti del nord sono troppo affaccendate nel drenare risorse dal sud per finanziare l’industrializzazione del nord, per occuparsi seriamente della situazione di “universale analfabetismo” in cui versano piccole comunità come Pachino. Le leggi Casati del 1870 e Coppino del 1877 non incidono che marginalmente sulla scolarizzazione locale. Nel 1892 anno in cui la riforma elettorale del 1882 mise in alternativa il censo alla scolarizzazione per cui potevano votare indipendentemente cittadini analfabeti ma con un carico fiscale di almeno 20 lire e cittadini che avevano superato il corso finale di scuola elementare o che dimostravano di sapere scrivere e leggere, erano iscritti nelle liste elettorali per le elezioni provinciali di quell’anno 193 persone, appena il 2% della popolazione. Specularmente si ricava che l’analfabetismo si attestava intorno al 98%, anche in presenza di un folte numero di iscritti alla scuola elementare di oltre 800 soggetti. Solo a partire dalla Legge Orlando del 1904 e poi, ancora, della Riforma Gentile del 1923 si può parlare di estensione della scolarizzazione nel territorio di Pachino. Il problema era l’edilizia scolastica e questa fu per prima efficacemente affrontata e parzialmente risolta con la costruzione dell’edificio “re scoli viecci” inaugurato nel 1936. Ma è con la ricostruzione post-bellica che il problema della scolarizzazione primaria e secondaria di primo grado giunge a risoluzione grazie all’estensione della scuola elementare, all’istituzione delle scuole di avviamento professionale, della scuola media, prima parificata comunale e poi statale, alla progettazione e realizzazione degli edifici scolastici ancora oggi esistenti. A partire dagli inizi degli anni ’70 del Novecento Pachino vedrà soddisfatto, anche, il suo bisogno di scuole secondarie superiori. Particolarmente l’Istituto Professionale Agrario fornirà quella cultura di base a parecchi di quei giovani che, scegliendo di restare a Pachino a coltivare le terre dei propri padri, daranno il via a quella terza riconversione economico-produttiva che porterà il paese, alla fine degli anni ’90, a primeggiare tra i paesi produttori dei primaticci e del ciliegino in particolare. È un esempio paradigmatico del legame tra istruzione ed economia che non si riscontra facilmente in altre realtà locali, limitrofe o più lontane.
La chiesa mi pare che abbia avuto un ruolo determinante a Pachino…
“La presenza religiosa nella comunità locale è duplice. Da una parte opera la chiesa cattolica fin dalla licentiapopulandi del 1760; dall’altra, a partire da fine Ottocento, farà sentire la sua forte presenza anche la chiesa valdese. Ruolo e funzioni delle due chiese oltrepassano l’ambito prettamente religioso per divenire esse stesse fattori di crescita sociale e culturale. Per tutto l’Ottocento la chiesa cattolina diviene compagna di viaggio della nobiltà pachinese, la famiglia Starrabba-Di Rudinì e i Tasca Mastrogiovanni, senza scossoni e senza traumi. Con il parrocato di Simone Sultano (1902-1939) avvine la prima chiara scelta di campo, che fa del fratello del fattore del marchese Antonio Di Rudinì il prototipo degli intellettuali religiosi del sud d’Italia che Antonio Gramsci definì “il vecchio tipo…intermediario tra il contadino e l’Amministrazione in generale…democratico nella facciata contadina, reazionario nella faccia rivolta verso il grande proprietario terriero”. Non che sconoscesse l’empatia per il suo gregge, ma era un’empatia che nei momenti topici si traduceva a vantaggio della nobiltà locale prima e del fascismo poi. Con Sultano inizia quel conflitto interreligioso che durerà quasi un secolo fino alla realizzazione del Concilio Vaticano II. Agli inizi del Novecento le due chiese svolgono un ruolo di supplenza dello stato nell’istruzione (famosi i due asili: quello cattolico Principessa Iolanda poi San Domenico Savio, quello valdese Il Redentore che chiuderà i battenti solo alla fine del millennio). Con la lotta all’analfabetismo sorge, anche, la lotta all’usura molto presente da sempre a fine Ottocento ed oltre. Le casse di mutuo soccorso, la Società di Produzione e Lavoro (1908) e la Cassa Rurale Santa Lucia (1908) vivranno due traiettorie evolutiva molto differenti. La seconda, quella cattolica, promossa con l’aiuto e la consulenza di don Luigi Sturzo avrà una vita molto travagliata e chiuderà i battenti nel 1929. L’originaria cassa di mutuo soccorso valdese, fondata da Biagio Panascia, al contrario, avrà una vita lunga e, trasformatisi in Banco di Credito Popolare, opera ancora oggi come volano fondamentale dell’economia locale. Ma è il cinquantennio del parrocato di Vincenzo Spiraglia (1939-1989) e soprattutto nell’immediato dopoguerra, il periodo della ricostruzione, che vede brillare, sia pure in condizioni avverse, la stella della chiesa cattolica locale, sapientemente guidata dal parroco succeduto a Sultano. La costruzione di nuove chiese alla periferia del paese, San Giuseppe nella zona est egemonizzata dai valdesi e San Corrado ad ovest, rinsalda l’adesione al cattolicesimo locale e arresta le pretese egemoniche della chiesa valdese, ma sortisce effetti dilunga durata anche sul piano sociale e civile, contribuendo ad ampliare il ruolo di cittadinanza ad ampie fasce di popolazione escluse ai margini della vita sociale, e con essa a creare la prima vera identità di popolo. Spiraglia sarà anche il più fedele interprete dei nuovi indirizzi del Concilio Vaticano II e contribuirà a realizzare quel dialogo ecumenico che cementerà sempre di più l’identità del pachinese.”
La cittadinanza di Pachino si interroga sui suoi problemi e cerca finalmente di uscire fuori dai propri limiti?
“L’esplodere del problema delinquenziale collegato allo spaccio della droga a partire della metà degli anni ’80 e le congiunture economiche negative con le ricorrenti crisi, a partire dalla fine del millennio, hanno fatto perdere gran parte dei progressi realizzati a partire dal dopoguerra. Oggi Pachino vive una situazione palesemente contraddittoria. Da una parte è agli ultimi posti per reddito e qualità della vita; dall’altra si assiste a un risveglio del turismo che se ben regolato può aprire una nuova primavera. Il limite che la società locale è ancora sprovvista di istituti di ricerca, e difetta di riflessione scientifica capace di ideare linee di sviluppo per il futuro. La proposizione stantia e stereotipa di indirizzi sul ciliegino non aiuta a progettare un futuro a bipolo fondato anche sul turismo. Necessita un Piano Regolatore del Turismo ma non si scorge all’orizzonte chi ne intuisca l’importanza.”
Possiamo dire che le classi dirigenti che si sono avvicendate a Pachino hanno contribuito in maniera negativa alla città?
“Quello del rapporto tra amministratori e amministrati, ovvero del ruolo delle élites intellettuali nella storia della comunità locale è uno dei temi centrali del saggio. La tesi è chiara fin dall’inizio: gli intellettuali locali giammai hanno svolto il ruolo di legislatori, cioè uomini di sapere che incarnavano e praticavano l’unità di verità, valori morali e senso estetico, autorità in grado di arbitrare le controversie in quanto legittimata da conoscenza superiore (oggettiva) garantita da regole procedurali di validità universale. È la definizione che ne dà ZygmuntBauman ne “La Decandenza degli intellettuali Da legislatori ad interpreti”. Trattandosi di costrutti che chiamano in causa il rapporto tra modernità (legislatori) e la post-modernità (interpreti), il processo individuato dal sociologo polacco non è applicabile al caso in specie. E, tuttavia, la tesi esplicitata nel saggio è che, gli intellettuali locali (i maestri, i decisori politici, i professionisti, la chiesa locale), fin dal loro apparire si sono caratterizzati come interpreti, cioè chierici del potere secondo la definizione che ne dà Julien Benda ne “Il tradimento dei chierici”, un illuminante saggio che scritto quasi cento anni fa ri-torna di stridente attualità in una epoca, quella post-moderna, in cui l’informazione è totalmente asservita agli interessi dominanti. Gli intellettuali della Pachino del tempo hanno tradito la loro funzione, che era e doveva rimanere la difesa dei valori eterni e disinteressati della conoscenza, della scienza, della ragione, della giustizia e della libertà. L’intellettuale o chierico, come lo chiama Benda, “non persegue fini pratici e, cercando la soddisfazione nell’esercizio dell’arte e della scienza o della speculazione metafisica, in breve nel possesso di un bene non temporale, afferma: “Il mio regno non è di questo mondo”. Ma quelli locali senza distizione di tempo tradirono la loro funzione, scesero nella pubblica piazza, fecero trionfare la passione realistica e particolaristica di nazione e di razza contro l’umanesimo universalistico. Aderirono alle passioni politiche e le mescolarono con il loro lavoro educativo e didattico. Scegliendo scale di valori particolaristici e non universalistici fecero di queste passioni e dei movimenti che le sostengono il massimo delle virtù pratiche. Predicarono il culto dello Stato forte e delle forme morali ed organizzative che lo sostengono, e relegarono la libertà e la giustizia sociale nel terreno del non necessario. E in contrapposizione ai diritti della ragione insegnarono i diritti della consuetudine e della tradizione. Insegnarono alle masse popolari locali le virtù dell’uomo nuovo, l’esaltazione del coraggio, il senso dell’onore, l’esaltazione della durezza, il culto del successo, l’interesse per la carriera.”
In che modo si sta evolvendo Pachino e la sua società?
“Quello attuale è, con scarsa possibilità di smentita, il periodo più nero della storia di vita di questa comunità. Lo scioglimento per infiltrazioni mafiose è la cartina di tornasole, ma forse solo la punta di un iceberg più profondo. Si confida molto sull’azione riparatrice della Commissione straordinaria per ridare ordine e legalità all’Ente Locale e, nel contempo, iniziare a risanare la sua situazione debitoria. La società civile indica alcuni fermenti positivi. Non si tratta di “febbre del vino” come diceva uno dei primi storiografi Filippo Garofalo a fine Ottocento, ma di “febbre di cultura”. Hic et nunc si colgono i segni di una rinascita culturale, come di quella economica. Nel campo della letteratura avanza una nuova generazione di scrittori e poeti; la storiografia scientifica ha fatto la sua apparizione certa e ha rilanciato la riflessione su Pachino e la sua storia; il turismo, sia pure in assenza di un piano regolatore, sembra essere diventato il volano dell’economia locale con Marzamemi che sempre di più e sempre meglio si pone come perla al centro del Mediterraneo; la presenza pervasiva di un sistema diffuso di volontariato fa ben sperare sol che si ritorni a ben ri-pensarne il suo utilizzo per il bene comune; il sistema creditizio gode della presenza di una banca oramai dalle fondamenta solidissime e capace di indirizzare il credito verso progetti di sviluppo e ammodernamento produttivo; la scuola soffre dei mali endemici di quella italianacon un basso indice di “produttività” e andrebbe riformata valorizzando il ruolo dei suoi attori principali, i docenti; in ultimo, la chiesa locale, che in questi ultimi 30 anni si è chiusa a riccio nella sua coorte, farebbe bene a ripensare la sua cattolicità, ovvero l’universalità, indicando quali sono le vie per la rinascita del bene comune della comunità.”
Da studioso pachinese è ottimista, realista o pessimista circa il futuro della sua città?
“Resto sempre fedele a una massima ben conosciuta: il pessimismo della ragione e l’ottimismo della volontà. L’amore per il mio paese mi porta a combattere qualsiasi battaglia, sia essa ideale e culturale che prassico-politica, che faccia intravedere una sia pur minima valenza di miglioramento e di progresso. In fondo i miei cinque libri, che pur contengono una critica serrata e “feroce” alla nostra storia, non sono altro che “atti d’amore per la mia gente”. Dice acutamente un mio carissimo amico che “Pachino è stata baciata da Dio, per le sue bellezze naturali, per il suo clima, per le sue terre ricche e fertili, per i prodotti della natura, ma Dio si “è dimenticato” di fare l’uomo, il pachinese”. Bene! Questo è il compito che spetta alle nuove generazioni, raccogliere il testimone dei padri, conservare quanto di buono ed utile essi hanno costruito, innestare il nuovo e il moderno, tenendo sempre vivo il costrutto semplice e chiaro della vita umana, molto caro a Don Lorenzo Milani: imparare che “il problema degli altri è uguale al mio. Sortirne tutti insieme è la politica. Sortirne da soli è l’avarizia”. Mi chiede se sono ottimista o pessimista sul futuro del mio paese. Le dirò che sono realista e realisticamente non lascerò nulla di intentato per dare sempre e comunque il mio contributo a prescindere…”
Recensione de libro “Pachino, tra familismo amorale e sub-culture”: