AGRIGENTO – “Accogliendo il desiderio del cardinale Montenegro, concediamo che il venerabile servo di dio Angelo Rosario Livatino d’ora in poi sia chiamato beato e che, ogni anno, si possa celebrare la sua festa il 29 ottobre”. E’ con queste parole che il giudice Livatino è stato proclamato beato nel corso di una cerimonia solenne celebrata nella cattedrale di Agrigento. In contemporanea il reliquario dove è contenuta la camicia indossata dal beato il giorno in cui venne ucciso dalla mafia è stato collocato in una teca della cattedrale. Si tratta di un reliquiario realizzato in argento martellato e cesellato. Quando, il 21 settembre 1990, il giudice Rosario Livatino fu ucciso dalla mafia quasi non lo conosceva nessuno, ad eccezione dei suoi aguzzini: lavorava al Tribunale di Agrigento e trascorreva le sue giornate tra polverosi fascicoli, occupandosi prevalentemente di sequestri e confische di beni sottratti ai mafiosi. Questo valse la sua condanna a morte decretata dagli uomini della Stidda, organizzazione mafiosa agrigentina, quattro dei quali poi condannati all’ergastolo. Ma quel delitto avvenne anche “in odio alla fede” del magistrato – hanno stabilito le autorità vaticane – per cui, riconosciuto il martirio, il giudice Livatino, cattolico praticante, sarà proclamato beato. Il decreto della Congregazione delle Cause dei Santi, avuta l’autorizzazione di papa Francesco, è stato pubblicato il 22 dicembre dello scorso anno.
La cerimonia di beatificazione oggi nella cattedrale di Agrigento presieduta dal cardinale dal cardinale Marcello Semeraro, Prefetto della Congregazione delle Cause dei Santi. La data non è casuale: nel 1993, proprio il 9 maggio, Giovanni Paolo Secondo, nella Valle dei Templi, rivolse il suo invito perentorio ai mafiosi: “Convertitevi! una volta verrà il giudizio di Dio!”.
Livatino – “il giudice ragazzino”, come è stato ribattezzato dopo la morte – fu ucciso lungo la statale che ogni mattina percorreva in auto da Canicattì – dove viveva con i genitori – al tribunale di Agrigento. Aveva rifiutato la scorta: implorò i “picciotti” assassini di fargli salva la vita, per tutta risposta ricevette in viso il colpo di grazia.
Per la coerenza tra la sua fede e il suo impegno di lavoro – i mafiosi lo definivano, con spregio, “santocchio” proprio per la sua frequentazione della Chiesa – fu avviata la causa per elevarlo agli altari. Nel decreto sul martirio è scritto che Livatino era ritenuto inavvicinabile dei suoi persecutori, “irriducibile a tentativi di corruzione proprio a motivo del suo essere cattolico praticante. Dalle testimonianze, anche del mandante dell’omicidio, e dai documenti processuali, emerge che l’avversione nei suoi confronti era inequivocabilmente riconducibile all’odium fidei (odio della fede)”, al punto che, inizialmente, i mandanti avevano pianificato l’agguato “dinanzi alla chiesa in cui quotidianamente il magistrato faceva la visita al Santissimo Sacramento”.
Di Livatino resta anche una impronta di forte attualità di impegno civile riguardo, ad esempio, ad alcune riflessioni su chi è chiamato ad amministrare la giustizia e sul dovere di non piegare la legge ad interesse di parte. E ancora del rapporto tra magistrati e politica. Parlando nel 1984 ad un convegno sul ruolo del giudice, disse: “Sarebbe sommamente opportuno che i giudici rinunciassero a partecipare alle competizioni elettorali in veste di candidato o, qualora ritengano che il seggio in Parlamento superi di molto in prestigio, potere ed importanza l’ufficio del giudice, effettuassero una irrevocabile scelta, bruciandosi tutti i vascelli alle spalle, con le dimissioni definitive dall’ordine giudiziario”.
Fede e lavoro appaiono un tutt’uno in un altro scritto del “giudice ragazzino”, del 1986: “Il compito del magistrato è quello di decidere. Orbene, decidere è scegliere e, a volte, tra numerose cose o strade o soluzioni. E scegliere è una delle cose più difficili che l’uomo sia chiamato a fare. Ed è proprio in questo scegliere per decidere, decidere per ordinare, che il magistrato credente può trovare un rapporto con Dio”.
Papa Francesco, parlando il 29 novembre 2019 ai componenti del Centro Studi “Rosario Livatino”, ha definito il magistrato “un esempio luminoso di come la fede possa esprimersi compiutamente nel servizio alla comunità civile e alle sue leggi; e di come l’obbedienza alla Chiesa possa coniugarsi con l’obbedienza allo Stato, in particolare con il ministero, delicato e importante, di far rispettare e applicare la legge”.
Dopo l’omicidio di Livatino, gli investigatori impiegarono mesi per decodificare l’acronimo “S.T.D.”, riportato su appunti, documenti e quaderni del magistrato e inizialmente scambiato per un codice segreto. Alla fine si scoprì che si trattava di un constante affidamento che Livatino faceva a Dio: le tre lettere stavano per “Sub Tutela Dei” (sotto la protezione del Signore”), principio ispiratore della sua vita e segno di una spiritualità profonda.